Se in Italia la Brexit si chiama Renxit. La parola forte di questi giorni è fuga. Fuga dall'Europa, fuga dai vecchi schemi, fuga dalla politica, fuga da Renzi. È come se ci fosse una voglia, di viscere e rabbia, di strapazzare il presente, di ridisegnare l'orizzonte con uno strappo deciso, per provare a vedere almeno uno straccio di futuro. È come quando si rimescolano le carte con la speranza che qualcosa cambi. Gli sguardi sono puntati chiaramente sulla Gran Bretagna, eppure qualcosa di atipico sta avvenendo anche in Italia. La Brexit sarebbe la grande svolta, quella che davvero fa paura e mette in crisi equilibri europei e geopolitici. Solo che quel vento sta perdendo fiato, soffocato dalla tragedia, con il sangue della laburista Jo Cox che non è affatto facile asciugare o dimenticare. Il cinismo finanziario della City londinese ha già espresso il suo verdetto: si scommette contro la Brexit. Finirà così, probabilmente. Ma questo non significa che l'Europa sia salda. Il malessere resta. Bruxelles, capitale di un'Europa ridotta a cifra, con quelle lettere Ue stampate su un vestito grigio, puzza ancora di regolamenti e burocrazia, di super Stato anonimo e pressante, di finanza e di banca. Non sarà tutta da buttare, ma di certo non scalda i cuori e soprattutto svuota lo spirito della democrazia. Renzi, in qualche modo, paga anche questo. Ed è un graffio, imprevisto, laterale, sulla sua immagine.
Il gioco dei ballottaggi ha premiato candidati che sono perlomeno scettici sull'Europa. Non ci sono solo Roma e Torino. Non c'è soltanto l'anomalia a cinque stelle con il volto rassicurante di Raggi e Appendino. C'è un voto che in tutta Italia deraglia dall'ordine europeo. Vale la pena di ricordare Trieste, porto della Mitteleuropa, con i suoi caffè che ancora respirano di Joyce e di Svevo, ma che il Novecento ha sfibrato e reso frontiera. Qui ha vinto Roberto Di Piazza che rimprovera a Bruxelles di aver devitalizzato lo spirito di intrapresa, di aver ripudiato l'individuo e soffocato chi non si rassegna alla mediocrità. Di Piazza vince evocando l'orgoglio dell'Occidente. Qualcosa di simile accade a Brindisi con Angela Carluccio. Ma poi c'è Bologna. Quella di Virginio Merola è una vittoria che solo per motivi burocratici si può assegnare al Pd di Renzi. Merola ha marcato la Lega sui suoi temi e per tutto il tempo ha evocato la sua indipendenza da Matteo: «Non abbiamo bisogno di fenomeni o leader che ci diano indicazioni dall'alto». Bologna non è fiorentina.
Qui però si arriva alla strana sorte che sta toccando al premier. Come mai Renzi sta incarnando il volto dell'Europa? Non è così scontato. Non era questa l'immagine del Renzi che arriva a Palazzo Chigi. Renzi è il rottamatore. È quello che promette meno grigio e meno austerity. Si vende come l'anti Enrico Letta e la nemesi di Monti. È il giovanotto bischero pronto a spernacchiare le lettere di Bruxelles. Tutto questo è svanito. I ballottaggi riflettono il volto di un quarantenne invecchiato troppo in fretta. È più vecchio perfino del giovane Letta. Qualcosa non torna, come se in questi tempi instabili venisse meno la regola aurea di Andreotti. Il potere in questo caso logora, logora chi ce l'ha.
Ed è un potere che in campagna elettorale ha sbagliato approccio. Troppo arrogante. Troppo scontato. Troppo antipatico.
A volte perfino troppo sprezzante con gli elettori. È come se quel potere arrivasse dall'alto, perché solo il Pd è degno di governare, e non dal basso, non dalla democrazia. Esattamente come Bruxelles. Renzi si è vestito d'Europa e la risposta è stata: Renxit.
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