Almeno un errore economico in questa pandemia non lo abbiamo commesso: ridurre drasticamente il volume del credito erogabile al sistema produttivo. Nel pieno della tempesta del 2012 fu il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco a sdoganare al grande pubblico il fantasma che si aggirava per l'Italia: il credit crunch.
Il meccanismo è micidiale: l'economia non tira, le imprese vanno in sofferenza, le banche non prestano (e da noi lo scarso appetito per strumenti finanziari alternativi a quelli bancari non fornisce grandi alternative) e il circolo vizioso si autoalimenta. Esattamente un anno fa sono diventati operativi i decreti Liquidità e Cura Italia. Non era detto che funzionassero a dovere, basti pensare ai pasticci fatti da click day e cassa integrazione in deroga. Eppure la sola Mediocredito Centrale, guidata da Bernardo Mattarella, in poco più di un anno ha concesso garanzie statali per 160 miliardi. È un bollino, per farla semplice, grazie al quale le banche (vigilate minuziosamente su parametri di capitale e rischi vari) possono concedere credito alle imprese a cuore un po' più leggero. Questa montagna di garanzie statali (pari al 10% del Pil in un solo anno) ha riguardato circa due milioni di pratiche. Poco più di 1,1 milioni di pratiche e 9 miliardi di garanzie hanno riguardato solo i famosi prestiti fino a 30mila euro. Ci sono state poi 366mila moratorie di prestiti in essere e circa 500mila pratiche di garanzie per prestiti fino a 5 milioni di euro.
Insomma per quella piccola e media impresa italiana, ancora in crisi, il credit crunch generalizzato non c'è stato. Lo spettro del 2012 non si è verificato. Ciò non toglie che partite Iva siano in grossa sofferenza, e vasti settori, basti pensare a turismo, ristorazione ed eventi, stiano boccheggiando. Ma il problema nel loro caso, si chiamano chiusure, lockdown, coprifuoco, città d'arte deserte. Insomma il tema per loro è più economico che finanziario. Magra consolazione.
Oggi corriamo un nuovo rischio. Che dalle parti di Banca d'Italia, da dove proviene Mario Draghi, conoscono bene: non bisogna pensare che l'emergenza sia finita. Ci vorranno mesi perché i consumi riprendano in modo stabile e che le imprese escano dal pandemic-crunch. Non si debbono sostituire troppo velocemente le misure emergenziali.
Il nuovo decreto sostegni sul quale stanno discutendo in queste ore, vorrebbe cambiare le carte in tavola. Ridurre la quota di prestito garantito dallo Stato e allungare le scadenze. Ragionevole, ma deve essere fatto con intelligenza economica più che come compromesso ragionieristico. Con 1,1 milioni di partite Iva e microimprese che si sono già portate a casa il prestito di 30mila euro, ridurre in questa fascia la garanzia statale dal 100 al 90 per cento comporterebbe davvero pochi problemi. Molto più complicato barattare un paio di anni di maturità in più per il debito fino a cinque milioni, riducendo (anche retroattivamente?) la garanzia di Stato dal 90 al 70 per cento. Qui si rischia grosso: e cioè che le banche, che poi sono quelle che scrivono questi prestiti nei propri libri, si tirino indietro.
Tra moratorie, prestiti, tassi negativi e vigilanza (come ha detto ieri a
Isabella Bufacchi sul Sole la presidente dell'Eba) che vorrebbe qualche attenzione in più sulla bontà del credito erogato, in un contesto come questo non forniamo al settore bancario una valida scusa per tirare i remi in barca.
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