Prigionieri della democrazia. Non il titolo di un film, ma la dura realtà. Una realtà pronta a mettere all'angolo due «nemici» come Recep Tayyp Erdogan - al potere in Turchia da oltre un ventennio - e Benjamin Netanyahu, seduto da quasi due decenni sulla poltrona di primo ministro israeliano.
Per entrambi la realtà coincide con le leggi della democrazia e delle urne. Erdogan, trionfatore di tutte le consultazioni elettorali dal 2003 in poi, fa i conti con l'amara sconfitta inflittagli dall'opposizione a Istanbul, Ankara e in altre grandi città. Bibi deve vedersela con le decine di migliaia di persone scese in piazza per chiedere le sue dimissioni e il ritorno ai seggi. La cosa singolare in tutto ciò è come la democrazia, calpestata dal Sultano e talvolta addomesticata da un premier israeliano pronto a tutto pur di conservare il potere, stia diventando l'estremo giudice di due politici difficilmente assimilabili.
Erdogan è un autocrate spregiudicato che non ha esitato a usare le maggioranze elettorali per snaturare costituzione ed essenza del sistema turco. Netanyahu si è spinto ai confini della democrazia solo quando ha tentato di imporre il controllo della politica sulla magistratura. In questa complessiva differenza, vi sono però molte analogie.
Entrambi hanno iniziato la loro parabola discendente quando hanno acuito lo scontro con quella laicità considerata, un tempo, il carattere fondante della democrazia turca e di quella israeliana. Erdogan l'ha fatto cancellando i precetti di quel «kemalismo» che imponeva al potere turco un rigoroso distacco dall'islam. Da buon militante della Fratellanza Musulmana, la stessa organizzazione fondamentalista da cui nasce Hamas, ha lentamente trasformato la Turchia in una «democrazia islamista», convinto di conquistare il cuore e la mente della maggioranza del Paese. Ma non gli è andata bene. Non appena l'economia ha cominciato ad arrancare e l'inflazione ha colpito i portafogli dei cittadini turchi, la sintonia religiosa non è più bastata a coprire i suoi soprusi. La spietata repressione degli oppositori e il mancato rispetto dei diritti umani, sempre più eclatanti dopo il fallito golpe del 2016, sono diventati la cartina di tornasole degli eccessi del Sultano, spingendo una buona parte degli elettori a cercarsi un'alternativa. Oggi quell'alternativa ha il volto di Ekrem Imamoglu, un musulmano moderato che ha conquistato il favore delle masse amministrando da sindaco, come già Erdogan, la megalopoli di Istanbul, capitale economica del Paese. E così nel 2028 i voti che domenica gli hanno regalato un secondo mandato da sindaco potrebbero trasformare Imamoglu nel successore del Sultano.
Ma i conti con il laicismo e con il tentativo di affossarlo deve farli anche Bibi Netanyahu. Pur di non mollare il potere e di non permettere la «soluzione dei due Stati», il premier israeliano ha scelto di allearsi con i partiti religiosi più estremisti della Knesset e con i rappresentanti dei coloni. Ma il tentativo di snaturare una democrazia israeliana fondata inizialmente su un rigoroso laicismo non ha giovato neanche a Bibi. Prigioniero e ostaggio dei partiti estremisti, Netanyahu si ritrova ad avere come unica speranza di sopravvivenza politica la continuazione della guerra ad Hamas. Un nemico che - fino a quel fatidico e tragico 7 ottobre - Netanyahu ha sempre preferito sottovalutare e ignorare per ragioni di opportunità politica.
Ma sul fronte della guerra Bibi e il Sultano sono accomunati anche dal tentativo di allontanarsi da un'America che aveva scelto la Turchia come bastione dei confini
orientali della Nato e Israele come principale alleato mediorientale. Quella rottura alla fine non sembra aver giovato né a Erdogan, né a Bibi, lasciati entrambi a piedi da una democrazia che non ama né ambivalenze, né ipocrisie.
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