L'Occidente appeso agli ultimi comunisti

L'arrivo di Pechino nel consesso del business mondiale l'11 dicembre del 2001 ha cambiato il corso della storia ancor più di quell'11 settembre del 2001, quando gli Stati Uniti, vedendo crollare le Twin Towers, scoprirono di non essere invincibili

L'Occidente appeso agli ultimi comunisti

E pensare che nei giorni di Seattle o del G8 di Genova, mentre i «no global» assediavano i potenti, si parlava dell'ingresso della Cina nel Wto, nell'Organizzazione mondiale del commercio, come della grande vittoria dell'Occidente. E, invece, l'arrivo di Pechino nel consesso del business mondiale l'11 dicembre del 2001 ha cambiato il corso della storia ancor più di quell'11 settembre del 2001, quando gli Stati Uniti, vedendo crollare le Twin Towers, scoprirono di non essere invincibili. Il fatalismo delle date: il piano era quello di acquisire mercati e delocalizzare la produzione per ridurre i costi; è successo l'esatto contrario, la Cina ha acquisito il know-how tecnologico e ora sta conquistando i mercati occidentali (la via della Seta è una verniciatura romantica all'operazione).

Così negli Stati Uniti e in Europa siamo passati dall'euforia della vittoria, alla paura, al timore che il capitalismo di Stato possa dimostrarsi più forte del libero mercato.

Anche perché, ubriache per il successo (erano gli anni dell'Ulivo mondiale dei Clinton, dei D'Alema, dei Prodi) le grandi potenze occidentali non hanno posto grandi condizioni al gigante cinese per entrare nel Wto: né sui diritti civili, né sulle libertà sindacali, né sui target igienico-sanitari. Così Pechino ha sommato i vizi del comunismo a quelli del capitalismo. E ora l'Occidente ne paga il fio. I guai, infatti, da qualche tempo vengono tutti da Pechino. È arrivato da lì il Covid che ha mandato in lockdown l'intero pianeta. L'aumento dei prezzi delle materie prime ha di nuovo come imputato Pechino. Per non parlare della politica espansionista cinese: ne senti l'odore a Kabul e te ne accorgi in Australia, che deve ricorrere ai sommergibili nucleari di Washington e di Londra per diventare un altro pilastro della grande muraglia occidentale contro la Cina. E ora, ultimo problema, c'è il rischio che dopo il virus sanitario dal Paese dei mandarini trasformati in capitalisti di Stato, arrivi un virus finanziario: la crisi del colosso immobiliare Evergrande rischia, infatti, di infettare l'intera finanza cinese e di propagarsi su tutte le borse del mondo. Un crac simile a quello di Lehman Brothers, qualcuno addirittura lo paragona alla crisi del '29.

Magari non succederà, magari la nomenklatura comunista cinese sacrificherà i privati e salverà le banche in nome del partito. In un Paese in cui diritti civili e libertà individuali sono ancora arabe fenici e la proprietà privata è solo una suggestione, i metodi non mancano. Parafrasando una frase di successo che caratterizzò la crisi finanziaria del 2008: i cinesi sono troppo furbi per fallire.

Ma anche se così fosse, anche se si riuscisse a circoscrivere il virus finanziario (ma è difficile), questa vicenda dimostra che il mondo è condizionato dal battito d'ali di una farfalla cinese. Altro che sogni di gloria dell'Occidente: a vent'anni da quell'11 dicembre del 2001, per evitare un'epidemia finanziaria siamo appesi alle decisioni di Xi Jinping. Non è certo una bella condizione.

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