Quei delitti che 'bucano lo schermo': "Vi spiego cosa succede"

Serie tv, film, podcast e documentari true crime: cosa c'è dietro la tendenza italiana che ha riportato in tv casi ormai chiusi come Sarah Scazzi, Yara e Luca Varani

Quei delitti che 'bucano lo schermo': "Vi spiego cosa succede"

Da “Yara” a “La scuola cattolica”, passando per “Sarah - La ragazza di Avetrana” e “Alfredino - Una storia italiana”. Nell’ultimo anno, le produzioni italiane al cinema e sulle piattaforme streaming si sono orientate sulla trattazione di grandi casi di cronaca nera. Di recente Sky ha anche opzionato “La città dei vivi”, romanzo di Nicola Lagioia basato sull’omicidio di Luca Varani. Ma cosa c’è dietro a questo proliferare di prodotti “true crime”?

Ci sono degli antenati eccellenti alla trattazione delle vicende di Yara Gambirasio, del Massacro del Circeo, Sarah Scazzi e Alfredino Rampi. Nella storia del cinema italiano si può annoverare ad esempio “Gran Bollito”, ispirato alla vicenda della Saponificatrice di Correggio, “Girolimoni - Il mostro di Roma” con Nino Manfredi, diversi film dedicati al delitto di Pier Paolo Pasolini. In tempi relativamente recenti, nel 2011, ci fu anche la fiction “Il delitto di via Poma”. Ma si tratta di casi “spalmati” nel tempo, che non hanno a che fare con il fenomeno che si può riscontrare in questo 2021.

“C’è un vero e proprio boom verso questo tipo di prodotti mediali. Ma ci vuole tempo e un necessario lavoro di rielaborazione per proporli al pubblico”, spiega Massimo Scaglioni, professore ordinario di Cinema, fotografia e televisione all’Università Cattolica di Milano e direttore del Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi.

A cosa è legata la tendenza a trattare sempre più casi di cronaca nera in tv e al cinema?

“La tendenza va inquadrata in un’ottica internazionale. Da alcuni anni è emerso un filone di genere chiamato ‘true crime’ che prevede racconti mediali che riguardano casi di cronaca vera di tipo factual e non fiction, che ricostruiscono casi reali che hanno al centro omicidi. La possiamo chiamare tendenza trans-mediale, nel senso che usa mezzi diversi: libri, film, serie, documentari, podcast. Negli Stati Uniti si è consolidata da un po’ di anni, soprattutto per quanto riguarda il documentario e la serialità, come per esempio ‘Making a Murderer’ e “American Crime Story’”.

E in Italia?

“Questo genere è arrivato anche in Italia: la cronaca nera è stata sempre trattata in televisione, ma recentemente c’è un vero e proprio boom verso questo tipo di prodotti, che sono analogamente trans-mediali. ‘Veleno’ era un podcast ed è diventato un documentario, c’è il podcast ‘La città dei vivi’ di Nicola Lagioia, dall’omonimo romanzo”.

Perché la percezione del prodotto secondo le persone, stando ai commenti social, scatena sentimenti contrastanti?

“Sicuramente sono temi che finiscono per polarizzare, non me ne stupisce, perché questi argomenti ci chiamano in causa e ci chiedono di prendere una posizione da colpevolisti o innocentisti, pro imputato o pro vittima. Sui social poi le persone tendono ad assumere una posizione radicale. Io farei una distinzione di due tipi rispetto al prodotto audiovisivo. Una distinzione importante è quella dei casi che vengono ricostruiti attraverso una narrazione storica, si tratta di casi chiusi. Poi ci sono quei casi che vengono trattati dalla televisione e sono ancora molto caldi, a volte bollenti, spesso con processi che sono ancora aperti”.

In cosa consiste questa diversificazione?

“Da un lato si tratta di ragionare su casi che sono diventati oggetto di letteratura, di un’elaborazione, di una scrittura più o meno complessa o raffinata - un esempio alto è proprio ‘La città dei vivi’ - dall’altro di casi che rappresentano ferite ancora aperte, al centro di talk o programmi di infotainment, che non hanno possibilità di rielaborazione (anche del lutto), e diventano quasi racconti a finale aperto che ci chiedono di prendere posizione. Verso questi ultimi sono molto più critico, soprattutto quando i casi narrati riguardano delle vicende ancora aperte, e gli stessi prodotti mediali finiscono per avere delle conseguenze, degli effetti e generare una pressione mediatica che può rivelarsi problematica”.

Quanto tempo è necessario aspettare prima di raccontare un caso di nera in tv?

“Io credo che sia necessario un lavoro di rielaborazione, che riguarda da un lato il tempo, in cui le verità processuali si siano acclarate, dall’altro lato la modalità di rielaborazione: un film o un documentario fanno un’elaborazione diversa da un programma televisivo che si svolge in diretta, che proprio per sua natura costruisce polarità che si contrappongono”.

“La città dei vivi” è stato opzionato per una serie tv. Che cosa ne pensa?

“L’omicidio di Luca Varani mi colpisce particolarmente. Rispetto ad altri casi di cronaca nera è un caso in cui non ci sono più aree grigie attraverso il lavoro degli investigatori e i processi, attraverso la conclusione tragica, la morte della vittima ma anche il suicidio in carcere di Marco Prato. Il caso suscita molti interrogativi - e Lagioia è riuscito a sottolinearlo molto bene - e lo ha fatto con un lavoro di scrittura che consente a questo caso di diventare altro. Nel romanzo e nel podcast, ci si interroga sulla natura del male, sul rapporto simbiotico tra un omicidio così efferato e la realtà di decadenza in cui è avvenuto, peraltro in un momento molto difficile per la città di Roma, nel mezzo di Mafia Capitale. La rielaborazione è stata eccellente nel libro e nel podcast, vedremo come sarà questo nuovo prodotto audiovisivo”.

Da “M il mostro di Dusseldorf” a “Yara”. Cosa è cambiato nel racconto degli artisti?

“‘M il mostro di Dusseldorf’ è un capolavoro della storia del cinema ed è nella direzione di quella elaborazione artistica, intellettuale, che il cinema è stato in grado di farlo. Non sempre si arriva a risultati artistici di quel livello, è molto raro che questo accada. Se dovessi citare un lavoro di eccellenza, citerei quello di Lagioia. Il film su Yara è un buon prodotto, ha riscontrato un buon risultato anche sui cataloghi internazionali, ed è un lavoro più commerciale”.

Perché crede che la storia di “Yara” abbia avuto tanto

successo anche internazionale?

“Perché tocca delle corde che sono universali: Netflix punta su storie che, pur essendo locali, parlano di tematiche come la pedofilia che sono universali, e riguardano tutti quanti”.

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