È una questione di civiltà, di dignità, di diritti fondamentali. Di coraggio e di orgoglio, anche. L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, certo, quando ce l'hai e ti consente di vivere oppure, semplicemente, non ti uccide. La morte di Luana D'Orazio, stritolata a 22 anni da un orditoio nella fabbrica in cui prestava servizio con contratto di apprendistato a Oste di Montemurlo, in provincia di Prato, dovrebbe farci interrogare su tutto quanto sfiori i valori scritti sulla Carta e nelle leggi. E invece per qualcuno, di nuovo, il problema è il corpo delle donne. Anzi, della ragazza: quelle foto in tv e sui giornali usate per documentare la tragedia più inaccettabile. Una giovane mamma che perde la vita per un lavoro, un bambino di cinque anni che perde la sua «stella», come ripetono i nonni straziati dal dolore.
In ogni realtà esiste un punto di rottura e molto spesso coincide con la sua rappresentazione. Se guardi in faccia una vittima, smette di essere un numero, una statistica nei rapporti ufficiali. Gli stessi che contano le morti bianche, 1.270 in un anno, vuol dire tre al giorno. Stragi silenziose, le chiamano. Ma le foto di Luana urlano giustizia. Sono un pugno sulle coscienze. Troppo bella nel fulgore dei vent'anni, sogni e giovinezza inghiottiti da una macchina. Come nell'Ottocento, solo che allora non c'era Instagram. La classe operaia continua ad andare in paradiso, e siamo nel 2021.
Le neo femministe da tastiera che si scandalizzano guardano il dito e non la luna: «I quotidiani e i tg ci marciano da giorni solo perché era bella». Come se fosse una colpa a prescindere, la bellezza. Conosciamo fin troppo bene i cortocircuiti dell'informazione per non ammettere che, in ogni caso, della sicurezza sul lavoro bisogna parlarne. Tutti i giorni, anche quando la profondità di uno sguardo può urtare la sensibilità. Eppure il tema è scomparso dai palchi del Primo Maggio, sbianchettato dalla lista delle priorità da leader politici e sindacalisti, per inseguire altri hashtag di tendenza e acchiappa-consensi. Forse il problema sta altrove, e non nei selfie in posa di una ragazza come tante nostre figlie e sorelle.
A Luana dobbiamo l'accertamento delle responsabilità sulla sua morte e il ricordo del suo esempio di lavoratrice e di madre. Perfino grazie a un'immagine sorridente sui social, se necessario. Finché quel viso ci disturberà, avremo un motivo per cui impegnarci.
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