L e critiche che Pierre Moscovici ha indirizzato al governo italiano obbligano a prendere atto che, anche stavolta, siamo di fronte al bue che dà del cornuto all'asino. Perché se è vero che la politica economica del nostro esecutivo si espone a molte contestazioni, quando il commissario Ue francese afferma che «ogni euro in più per il debito è un euro in meno per le autostrade, per la scuola, per la giustizia sociale» ci si rende conto (...)
(...) che la Roma dei populisti e la Bruxelles dei benpensanti sono assai più simili di quanto non si voglia ammettere.
In effetti, c'è qualcosa di surreale in questo scontro tra il socialista Di Maio e il socialista Moscovici, con il primo che afferma che bisogna spendere per eliminare la povertà, mentre il secondo replica che aumentare il debito finisce per sottrarre risorse ai servizi pubblici.
Nel conflitto tra Bruxelles e Roma, allora, abbiamo una di fronte all'altra due versioni dello statalismo. Gli uni e gli altri, infatti, ritengono che soltanto lo Stato possa generare benessere e realizzare infrastrutture. E se Moscovici - mandato a Bruxelles da François Hollande - ha ragione a invitare l'Italia a tenere sotto controllo i propri conti, al tempo stesso è vero che il nostro dissesto è figlio di una cultura assistenzialista che ben pochi, in tutta Europa, intendono abbandonare.
L'Unione europea non è in grado di dare lezioni perché si è costruita su logiche redistributive in tutto simili a quelle promosse dagli attuali governanti italiani, che si apprestano a varare il reddito di cittadinanza. E non è un caso che ogni intervento di Bruxelles sia un assist a favore di chi, a Roma, sta aumentando il ruolo dei poteri pubblici a danno delle partite Iva.
In fondo, con questo esecutivo si certifica una volta per tutte che l'unica strategia meridionalista che l'Italia riesce ormai a concepire è quella di uno Stato che nemmeno più s'illude di poter favorire la crescita del Sud e che, di conseguenza, si limita a distribuire risorse:
prima raddoppiando gli addetti dei centri per l'impiego e poi elargendo assegni di sopravvivenza al maggior numero di disoccupati.
Esattamente come Moscovici, i governanti italiani pensano che l'intervento statale possa risolvere ogni problema. Così se abbiamo sacche di povertà, il governo tasserà chi produce e darà quelle risorse a chi non ha reddito; e se l'economia non cresce e non crea ricchezza, analogamente l'unica soluzione immaginata è che lo Stato incameri una parte dei profitti delle imprese e li destini a propri progetti. La spesa pubblica come motore dello sviluppo non è certo un'invenzione di leghisti e pentastellati.
Ovviamente tutto ciò non ha senso, poiché non vi è alcun solido argomento a sostegno della tesi che spostare risorse dai privati allo Stato, facendo sì che le scelte non siano degli imprenditori o delle famiglie ma di politici e burocrati,
possa aiutare l'economia grazie agli investimenti di Stato. Al contrario, mentre un privato spende con oculatezza e per soddisfare i consumatori,
un politico ha di mira soprattutto le conseguenze elettorali e di breve termine delle sue scelte.
A ben guardare, allora, bisognerebbe spendere meno e tagliare davvero le imposte, al fine di ridare opportunità ai privati,
che oggi non possono più innovare, assumere, investire. Ma a Roma e Bruxelles questa semplice
verità non è stata ancora compresa.
Carlo Lottieri
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