Magazzino 18: quello che resta degli esuli italiani

Questo luogo metastorico custodisce le masserizie dei nostri connazionali costretti a scappare alla fine della seconda guerra mondiale da Istria, Fiume e Dalmazia per sfuggire alla pulizia etnica e per non rinnegare la propria italianità

Magazzino 18: quello che resta degli esuli italiani

L’acqua che bagna il porto di Trieste scorre, così come come il tempo che è passato da quando gli italiani di Capodistria, Fiume, Pola, Albona, Orsera, Parenzo, Rovigno, Zara, Spalato e Ragusa furono costretti a lasciare le loro case all’indomani del Trattato di Parigi con cui, il 10 febbraio 1947, quelle terre vennero definitivamente assegnate alla Jugoslavia del maresciallo Tito.

Il luogo senza tempo
Eppure nel porto vecchio di Trieste c’è un magazzino dove il tempo sembra essersi fermato: le mura sono consumate dalla salsedine e dall’umidità ma, sulla facciata, si legge ancora il numero “18” (guarda il video). Divenuto famoso grazie allo spettacolo di Simone Cristicchi che, con un’opera teatrale coraggiosa e solitaria, ha raccontato una pagina strappata della storia d’Italia, questo luogo rappresenta il sacrario della memoria degli esuli che arrivarono a Trieste per sfuggire alla pulizia etnica e per non rinnegare la propria italianità.

Dispiace un po’ vederlo così, abbandonato, nonostante l’Istituto regionale per la cultura istriana-fiumana-dalmata (Irci), coi pochi mezzi di cui dispone, faccia di tutto per conservare ciò che contiene (guarda le foto). “Il grande problema è quello della manutenzione dei beni culturali, tra cui rientra il Magazzino 18, che - spiega Franceso Degrassi, presidente dell’Irci - è un bene particolare, ideale, è il luogo del rinnovo della memoria, testimone della sofferenza provata dai nostri connazionali prima nel portare via questi beni, poi nel doverli lasciare perché non avevano più la possibilità di utilizzarli”.

L’amara disillusione raccontata dalle masserizie
Ed infatti, basta varcare la sua soglia, per redensi conto della particolarità di questo posto. Icone religiose, ritratti, oggetti di uso quotidiano, sedie e persino letti ed armadi: tutto trasmette un profondo senso di abbandono e di speranze andate in frantumi, perché i profughi istriani hanno portato con sé quelle suppellettili con l’illusione di riprendere la propria vita da dove l’avevano lasciata. Ma l’accoglienza ricevuta in Patria, come dimostrano gli episodi che in questi anni sono via via venuti a galla, è stata ben diversa dalle loro aspettative. Emblematico, in questo senso, è il caso della stazione ferroviaria di Bologna dove un convoglio con a bordo centinaia di profughi italiani, ribattezzato per questo “il treno della vergogna”, venne preso a sassate da una folla inferocita.

Così molti esuli, dopo aver trasportato le loro masserizie al di là dell’Adriatico, sono stati costretti a distaccarsene per sempre perché nei campi profughi in cui erano stipati non c’era spazio, oppure perché alcuni preferirono emigrare all’estero, negli States, in Canada, in Argentina oppure in Australia, per conquistarsi quel futuro che l’Italia gli aveva negato. “Il dramma dei profughi è proprio questo qui, da un lato hanno abbandonato il loro ambiente naturale, dall’altro hanno cercato di costruirne un altro che però non sarà mai uguale allo precedente”, spiega il direttore dell’Irci, nato in quella che oggi gli sloveni chiamano “Izla” ma che, per lui, rimarrà sempre Isola, Isola d’Istria.

“Quella donna sono io”
“Ad entrare qui dentro, ogni volta, mi si stringe il cuore”, commenta Degrassi osservando le decine e decine di volti strappati alle proprie identità. Sono quelli di donne e uomini di tutte le età che campeggiano in foto e ritratti appesi alle pareti. Chi sono? Ci osservano senza parlare. Cosa c’è nella piccola valigia che tiene in mano quella bambina? E quel neonato avvolto in una coperta, mentre cade la neve di febbraio, ce l’avrà fatta? E adesso dove sarà? Difficile, molto difficile da stabilire, ma non impossibile come dimostra la storia che vi stiamo per raccontare.

“Vede questa foto dietro di me?”, s’inserisce Pietro Delbello, direttore dell’Irci, indicando l’immagine di una ragazza mora che tiene in mano una sedia, “questa foto - prosegue - ha una storia molto particolare”. Nel 2005, a Trieste, l’Irci ricostruì il campo profughi di Padriciano, piccola frazione triestina dove sorgeva uno dei principali centri di accoglienza per gli esuli, per mostrare in quali condizioni viveva la nostra gente. In quell’occasione l’allora ministro per gli Italiani nel mondo, Mirko Tremaglia, richiamò in Italia 150 esuli che erano sparsi in tutto il mondo. Per rendere ancor più realistico l’allestimento gli organizzatori decisero di stampare in formato gigante alcune foto degli italiani in fuga da Pola e, tra queste, c’era anche quella della ragazza con la sedia.

“C’erano tantissime persone - ricorda Delbello - e c’era una signora, alta, imponente, del gruppo di quelli che venivano dall’Argentina, il caso volle che mi fosse accanto”. Ad un certo punto, durante la visita, il direttore dell’Irci racconta: “quella donna mi strinse il braccio, ricordo ancora quella stretta, e mi disse, in dialetto: «quella sono io, io non avevo mai visto questa fotografia» indicando la gigantografia che raffigurava l’anomia ragazza con la sedia”. Ed infatti, si scoprirà poi, che lei, esule da Pola nel febbraio del ‘47, partì per l’Argentina e da allora non tornò mai più in Italia. La donna, prosegue Delbello, “completò la frase dicendo «sono io con la mia sedia», identificava sé stessa con quel poco che si era portata via, ovvero la sua sedia”.

Un simbolo per tutti
La montagna di sedie, accatastate una sull’altra in uno stanzone al primo piano del Magazzino 18, ha reso questo oggetto il simbolo delle masserizie abbandonate.“Sotto ad ognuna - spiega Degrassi - c’è il nome del proprietario”. Anche a Cristicchi, quando per la prima volta mise piede nel deposito delle masserizie, ne era stata regalata una, la stessa che lo ha accompagnato sulla scena del suo musical.

E, proprio guardando la piramide di sedie, Delbello ricorda, “questo insieme di masserizie vecchie e massacrate sono un caso unico nel mondo”. In questa unicità risiede il loro valore universale. “Quando anni fa vennero qui i rappresentanti degli esuli dei sudeti, un’altra storia per certi versi parallela, un’altra storia terribile, guardando le masserizie dissero: «queste cose siamo noi, con queste cose voi raccontate la vostra storia ma, allo stesso tempo, raccontate anche la nostra storia», ed anche quella di tanti altri esodi, ecco perchè - conclude il direttore - questi oggetti hanno un carico simbolico che va oltre e, se noi ragioniamo in questi termini, capiamo quanto sono importanti le masserizie”.

Il ricordo indelebile
Di fronte a questo patrimonio immobile di testimonianze, l’eco delle polemiche che accompagnano ogni anno la giornata del 10 febbraio - tra tesi negazioniste e istituzioni smemorate - diventa assordante. Passando così dalle sedie degli esuli alle poltrone dei politici il primo pensiero va al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, per il 10 febbraio, ha fissato in agenda una missione a Madrid invece di presentarsi a Basovìzza, mentre, in quel di Monteciotorio, è andato in scena un convegno riduzionista in compagnia della storica Alessandra Kersevan. Nel frattempo anche dall’amministrazione capitolina sono arrivati segnali preoccupanti: quest’anno la giunta pentastellata non avrebbe stanziato nemmeno un euro per i viaggi del ricordo. Per non parlare della scia di piccoli grandi episodi registrati lungo tutta la Penisola che hanno dimostrato come una legge, da sola, non basta.

Così, ai pensierosi visitatori del Magazzino 18 - dove ieri ha fatto tappa

anche il leader della Lega Nord Matteo Salvini - non resta che approfittare di un grosso libro, posizionato all’uscita, per rinnovare con un’annotazione, scritta con inchiostro idelebile, la solenne promessa di non dimenticare.

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