Sembra quasi di vederli. Avvocati e periti in doppiopetto, 24 ore di pelle lucida, occhiali con montature delicate e costosissime. Seduti in una grande stanza sobriamente arredata, sono divisi in due gruppi ben distinti, ma si somigliano tutti. Sfogliano carte, prendono appunti. All’inizio sussurrano tra loro, ripassano un copione già scritto e studiato a memoria. Infine sciolgono gli indugi e sfilano i pugnali di rappresentanza. Mercanteggiano. Poi, soddisfatti, si stringono la mano e ognuno per la sua strada. Affare fatto.
Non sarà certo andata in questo modo, ma è così che noi immaginiamo le trattative che hanno portato a un accordo fatto sulla pelle di 140 vittime. Sì, perché dopo 31 anni, dopo una sfilza di processi, dopo due commissioni d’inchiesta, lo scenario – parziale, sia chiaro – comincia a intravedersi in tutta la sua semplice crudezza: la verità sul disastro del Moby Prince non conveniva a nessuno. Per ragioni diverse ma in parte sovrapponibili.
“È stato il disastro più grave nella storia della nostra navigazione civile”. Così il presidente Sergio Mattarella nell’aprile dello scorso anno, in occasione del trentennale dal disastro. Ma le sue parole non rendono l’idea di ciò che è stato quel 10 aprile 1991, quando nella rada del porto di Livorno 140 persone hanno vissuto l’inferno. Quello vero.
È notte, il traghetto Moby Prince si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo ferma all’ancora. Nasce un incendio violentissimo. Mentre i soccorsi si attivano per la petroliera, che non registrerà nessuna vittima, il Moby brucia per una notte intera. Sarà non solo il più grande disastro della navigazione civile ma anche, come scritto nella relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta presentata il 15 settembre a Palazzo San Macuto, anche la più grave strage sul lavoro della nostra storia repubblicana. Erano infatti 65 le lavoratrici e i lavoratori impiegati sul traghetto e molti altri stavano andando da Livorno alla Sardegna per esigenze professionali.
Naturalmente nella relazione finale della Commissione parlamentare, presieduta da Andrea Romano (Pd), c’è molto altro. Nonostante la brusca fine dei lavori imposta dalla caduta del governo Draghi, tanti – e alcuni definitivi – sono i passi avanti compiuti nell’accertamento della verità. Passi avanti resi possibili soprattutto grazie alla precedente Commissione d’inchiesta parlamentare decisa dal Senato nel corso della XVII Legislatura e che ha operato tra il luglio 2015 e il dicembre 2017.
Ma per quale motivo è stato necessario ricorrere allo strumento delle commissioni? Cos’è andato storto nell’accertamento dei fatti compiuto nel corso degli anni dagli organi preposti? Ancora una volta, spiace constatarlo, si registra una pessima prova da parte non tanto della magistratura, ma di alcuni magistrati che, stando ai risultati della Commissione, in determinate fasi della loro attività hanno avuto più a cuore la carriera che non l’accertamento dei fatti. E come in molti altri casi (pensiamo alla strage di Viareggio del 2009 o al crollo della torre piloti nel porto di Genova del 2013) è stata la tenacia dei familiari delle vittime a consentire che sulla vicenda non calasse un vergognoso velo di silenzio e impunità.
Un velo rappresentato nientemeno che dalle verità processuali che, smontate pezzo dopo pezzo dalla commissione del Senato e, ora, da quella della Camera, hanno lasciato il posto a uno scenario disarmante. Dopo il mastodontico lavoro della commissione del Senato, il lavoro della commissione parlamentare è stato di cesello. Un lavoro di precisione, sorretto dalle pregresse acquisizioni e da un rigore metodico. Se infatti la precedente commissione era arrivata a importanti conclusioni, come l’assenza di nebbia quella notte nel porto di Livorno (nebbia che è sempre stata indicata come elemento determinante lo schianto tra le navi), la commissione parlamentare si è concentrata in particolare sulle circostanze della collisione.
Non è facile sintetizzare in poche righe il lavoro di un anno presentato oggi a Roma, basti dire che in questa storia si possono individuare due macro-filoni: da un lato quello dell’incompetenza, dall’altro quello dell’intrallazzo. Se può restare solo un’ipotesi una convergenza dei due canali, una cosa è certa: In entrambi i casi si è cercato di metterci una pezza.
Torniamo allora a quell’immagine iniziale, la ricostruzione di come anonimi avvocati abbiano cercato di tombare la vicenda sotto un accordo siglato il 18 giugno 1991, poco più di due mesi dal disastro, prima che la prima inchiesta fosse giunta a un qualsivoglia risultato. La stipula dell’accordo assicurativo tra Nav.Ar.Ma (oggi Moby Line) e Snam è sempre stata oggetto di attenzione da parte dei membri prima della commissione del Senato e poi di quelli della commissione parlamentare che, sul punto, sembrano giunti a una lettura dei fatti definitiva.
In sintesi, non si è trattato di un accordo fraudolento, ma si deve tener conto del fatto che la responsabilità dei soggetti implicati nella collisione "ha avuto un pesante impatto non solo sull’asset delle Compagnie assicuratrici coinvolte, tanto per il Moby Prince, quanto per la Agip Abruzzo, ma ha anche influito, orientandole, sulle indagini, e ha inciso quindi di riflesso sulla fase processuale e sulle risultanze di essa".
Resta purtroppo un punto oscuro. Il dubbio, cioè, "se la suddivisione di responsabilità stabilita fra le parti fosse condizionata dalla sola consapevolezza della posizione in divieto d’ancoraggio in capo alla petroliera o se, in aggiunta, le parti abbiano valutato ulteriori elementi (la presenza di un terzo natante o lo svolgimento di operazioni a bordo della petroliera Agip Abruzzo) rispetto ai quali abbiano concordato di non fare alcuna menzione nell’accordo assicurativo". Questo, in particolare, per la lacunosità della documentazione disponibile e l’assenza di gran parte del carteggio intercorso fra gli studi legali e le parti.
La relazione finale della commissione si concentra in modo particolarmente pesante sul punto: "Preme sottolineare che siffatto accordo armatoriale assicurativo abbia comunque contribuito ad orientare la ricostruzione dei fatti e non può non avere avuto una marcata influenza sullo sviluppo delle indagini prima e della fase processuale dopo, così come sulla rappresentazione dei fatti prospettata e che fu in seguito accolta dalla magistratura".
I fatti rappresentati cui si fa menzione vedevano lo schianto tra navi determinato, come già accennato, da un’improvvisa caduta di fitta nebbia a banchi. Non solo. La verità processuale ha cercato di far passare la versione di un incendio violentissimo che, propagatosi, aggrediva a velocità di centinaia di metri al secondo e a temperature elevatissime entrambe le navi dall’esterno verso l’interno, rendendo inutili le difese passive delle navi stesse e anche i soccorsi verso il Moby. Questo assunto che cosa ha determinato? Che la posizione irregolare della petroliera non sia mai stata oggetto di qualsivoglia forma di approfondimento, né in sede di indagine amministrativa, né di indagine penale.
La domanda che resterà probabilmente senza risposta è questa: che cosa stava facendo quella notte la petroliera Agip Abruzzo, ancorata dove non sarebbe dovuta essere? Come sottolinea la relazione finale "il rinvenimento di una manichetta bruciata innestata sull’Agip Abruzzo nei pressi della cisterna n. 6 centrale e trovata aperta non è mai stata processualmente considerata e ciò ha consentito negli anni la formulazione dell’ipotesi che, prima dell'impatto, sulla petroliera la situazione non fosse ordinaria come più volte descritta dall'equipaggio della petroliera ma fossero invece in corso delle operazioni di travaso di idrocarburi". Nello specifico, operazioni probabilmente clandestine.
E poi l’affondo: "Nel corso delle proprie attività di indagine questa Commissione ha avuto conferma della valutazione, pienamente condivisibile, fatta dalla Commissione senatoriale in merito al 'comportamento di Eni connotato di forte opacità'. Opacità riscontrata, in particolare, in merito alla determinazione della effettiva provenienza della petroliera, del carico realmente trasportato e delle attività svolte durante la sosta nella rada di Livorno, comportamento certamente opaco che questa Commissione ritiene di biasimare".
Una storia sbagliata, per citare De Andrè, ma anche una storia disonesta (e qui scomodiamo il cantautore Stefano Rosso). In sintesi, una storia all’italiana, dove i soccorsi, la notte del disastro, sono stati colpevolmente assenti per ragioni mai pienamente spiegate, dove un equipaggio eroico è stato per anni tacciato di incompetenza, dove centinaia di persone potevano essere salvate ma sono state lasciate bruciare vive o soffocare. Una storia dove un ammiraglio è il primo a divulgare ai media la bufala della presenza di nebbia fitta in porto, una storia dove l’esplosivista incaricato dalla procura di Livorno nelle primissime indagini non è un vero esplosivista, ma un chimico che si rivelerà essere in forza al Sismi, una storia dove compaiono misteriose navi fantasma.
Ed è questo un altro punto cruciale presente nella relazione finale della commissione d’inchiesta. Quella notte tra il Moby Prince e la Agip Abruzzo c’era un terzo natante. Citiamo testualmente: "La distanza temporale dai fatti, l’assenza di accertamenti esaustivi e diretti svolti nell’immediatezza dei fatti dagli inquirenti e alcuni fraintendimenti rendono tecnicamente impossibile il preciso accertamento dell’identità del terzo natante. La conclusione anticipata della Legislatura, come già affermato, ha impedito alla Commissione di proseguire con gli accertamenti e in particolare di verificare con esattezza le presenze e i movimenti di tutte le unità navali riscontrabili nella rada di Livorno la notte del 10 aprile. Il solco di indagine su cui la Commissione stava operando al momento dell’interruzione dei lavori di indagine riguardava alcune imbarcazioni che erano già state oggetto di attenzione da parte della Procura di Livorno nella cosiddetta “Inchiesta Bis” (2006-2010), su cui la Commissione stessa ha ritenuto opportuno acquisire ulteriore documentazione tecnica. [...] Questa verifica ha nuovamente evidenziato alcune incongruenze relative alla 21 Oktoobar II, nave peschereccio di costruzione italiana, battente bandiera della Somalia, di proprietà della società armatrice Shifco di Mogadiscio".
E qui si aprirebbe non un altro capitolo, ma un’altra voragine sul fondo della quale si intravedono le morti di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, le missioni italiane in Somalia, le morti degli agenti segreti Vincenzo Li Causi e Mario Ferraro, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia ambiguo come Francesco Elmo, il massacro di un militare come Marco Mandolini, i traffici di armi e le cosiddette “navi a perdere” . Ma non ci lasciamo inghiottire.
Torniamo alle conclusioni della relazione: "La collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo è avvenuta all’interno dell’area di divieto di ancoraggio che era presente al tempo in rada, a seguito di una turbativa esterna della navigazione provocata da un terzo natante che non è stato possibile identificare con certezza assoluta.
Pur avendo individuato alcuni interessanti spunti di indagine, la Commissione non è in grado di indicare con certezza quale sia l’identità di questo terzo natante, in quanto il termine anticipato della Legislatura ha interrotto gli accertamenti che erano stati disposti".Una conclusione che lascia l’amaro in bocca, ma – come al finale di stagione di una serie tv – anche la certezza che il prossimo capitolo riserverà grandi sorprese. Non resta che attendere pazientemente.
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