Dunque oggi il disegno del sultano Erdogan diventerà realtà, nonostante il dispiacere del Papa e di tutto il mondo cristiano. L'Arcangelo Gabriele, il Cristo Pantocrator, e gli altri famosi mosaici e dipinti verranno coperti da tende scorrevoli perché, secondo il dettato musulmano, non vi siano immagini nei luoghi sacri, mille fedeli si inchineranno sui tappeti distanziati secondo le regole della pandemia. Il mondo si deve accontentare di una promessa che nulla verrà rovinato. Ma non è un gesto innocuo. È una promessa di guerra.
Quando il 10 luglio ha annunciato la volontà di convertire il museo, ex cattedrale, di Santa Sofia in una moschea, Recep Tayyp Erdogan ha dichiarato anche che egli «libererà» Gerusalemme dai suoi «invasori» (gli ebrei), e in particolare la moschea di Al Aqsa, inaugurandovi, come accade oggi, la preghiera islamica, «libererà» Santa Sofia. Si tratta sempre di Umma islamica, come la cattedrale-museo. È un'operazione politico-religiosa di grande respiro, che proviene dal mondo sunnita, in parallelo e in concorrenza con la grinta sciita dell'Iran che da decenni proclama con determinazione dottrinale e grinta bellica l'inevitabilità di un immenso stato islamico, i cui nemici sono cristiani ed ebrei.
Gli ebrei, sia per l'Iran che per la Turchia d'oggi, hanno un ruolo particolare: essi sono lo stendardo di battaglia. Da qui l'odio per Gerusalemme. E il suo uso come tromba di guerra e richiamo al mondo arabo da parte di Erdogan, mentre per altro parla all'Europa con Santa Sofia. L'Umma islamica, sia che venga ristabilita al completo su tutti gli storici possedimenti islamici, ovvero su qualsiasi parte del territorio, degli edifici, della popolazione che ne siano mai stati parte, ha due nemici che qui, sulla strada di Erdogan, diventano visibili, anzi, vittime fosforescenti: le altre due religioni monoteiste fondamentali. Con l'aggiunta dei musulmani apostati, i kafir, per esempio di questi tempi i sauditi alleati dell'Occidente. La meraviglia della cattedrale di Santa Sofia costruita nel 537 dall'imperatore bizantino Giustiniano divenne moschea per la prima volta nel 1453, finché quel genio di Mustafa Kemal Ataturk aggiunse la sua conversione in museo all'incredibile numero di riforme che dovevano trasformare la Turchia nel grande ponte storico per cui il mondo musulmano avrebbe preso la strada della democrazia e della modernità. Non è andata così. È arrivato Erdogan, con le due centinaia di migliaia di dissidenti in carcere, i giornali silenziati, i curdi perseguitati, l'antisemitismo come bandiera. E il sogno islamista nutrito dalla violenza e la corruzione.
I circoli conservativo-islamici, che sempre hanno richiesto il ritorno al ruolo di moschea, lo hanno fatto appoggiandosi alla teoria del «nemico ellenico» basato sull'odio per la Grecia, che Erdogan, fra i tanti odi che costruisce senza sosta, tiene in piedi. Ma è chiara una debolezza strutturale della sua leadership che accende continui fuochi in tutto il mondo e porta l'esercito dalla Libia alla Siria all'Irak, fornisce soldi a Hamas, e intraprende nuovi legami anche con Teheran; la situazione economica che caratterizza la sua gestione, la perdita di consenso anche nella capitale, la pandemia portano la Turchia a soffrire sempre di più sotto il tallone di Erdogan e del suo impero Ottomano rinnovato dalla Fratellanza Musulmana di cui è leader mondiale. Erdogan pensa al futuro: per questo emerge in questi mesi un nuovo nesso fra Turchia, Malesia, Indonesia, Pakistan, con il Qatar (e come poteva mancare) come partner aggiuntivo. Nuove alleanze mondiali contornate da visite e piani comuni, in cui l'Iran si affaccia senza sosta e la Cina occhieggia, che accompagnano i sogni regionali.
Erdogan cerca una posizione di forza lungo tutta l'area Mediterranea, sfida la Grecia, Cipro, la Francia e Israele sulle riserve di marine gas, dà spallate all'Egitto e di conserva all'Arabia Saudita, mentre insieme all'Iran giura la distruzione di Israele. Ma al centro di tutto questo, una magnifica basilica-museo cara al mondo cristiano, da oggi, diventa moschea.
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