Il probabile naufragio dell'acquisizione del Monte dei Paschi da parte di Unicredit è una questione prima di tutto politica. L'aspetto finanziario è in secondo piano. E non solo perché Mps, dopo il salvataggio statale del 2017 (governo Gentiloni e ministro del Tesoro Padoan), è una banca pubblica. Ma soprattutto perché in questa fase politica si tratta di una grana colossale sia per Mario Draghi, sia per una delle grandi gambe del suo governo, vale a dire il Pd.
Il succo della questione è il solito: il prezzo. Nello specifico Unicredit è disponibile a prendere Mps a due condizioni: ridurre i 21.000 dipendenti e ottenere una dote di capitale per far fronte al deficit patrimoniale presente e potenziale. L'operazione si fa, dunque, solo se il numero uno della banca milanese Andrea Orcel trova un accordo su questi punti con il Mef, il venditore. E dopo qualche mese di trattativa, ieri le parti hanno rotto. Per il Mef, Orcel chiede troppi esuberi (ben oltre un terzo del totale) e troppi soldi, circa sette miliardi. Unicredit, da parte sua, non ritiene di fare un'operazione di sistema senza garantire ai suoi azionisti privati un adeguato ritorno. Niente di strano, dunque, se non che ci troviamo di fronte a una rottura generata dall'improvviso imbarazzo del venditore a mettere sul tavolo le risorse dei contribuenti. Orcel, a ben guardare, segue uno schema già visto nel recente passato, sia quando Intesa ha rilevato le banche venete, sia quando le popolari Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara sono finite a Ubi: due operazioni che avevano in comune un corposo incentivo pubblico. Per questo 20 giorni fa Orcel ha scritto una lettera al direttore generale del Mef Alessandro Rivera per chiedere di chiudere l'operazione entro il 27 ottobre, giorno del cda di Unicredit. La risposta è la rottura di ieri.
Il punto è che con Mps si è arrivati al dunque senza che il governo abbia voluto metterci realmente la faccia. La trattativa con Orcel la conduce in solitaria proprio Rivera. Mentre sia Draghi sia il ministro Franco si sono tenuti alla larga. È che tirare fuori 7 miliardi per Mps significa togliere in un sol colpo ai contribuenti la stessa cifra che il governo vuole stanziare in manovra per ridurre le tasse. Mentre per salvare qualche migliaio di bancari non coperti dal fondo esuberi serve ricollocarli in aziende pubbliche, di nuovo a spese di Pantalone. Arrivati al punto, chi se ne assume la responsabilità? Fa tutto Rivera? E come fanno a uscire allo scoperto Draghi e Franco?
Agli imbarazzi di cui sopra si aggiungerebbero immediati anche quelli di dover coprire tutto il coté legato al Pd, il partito che tramite gli enti locali senesi ha prima nominato i vertici di Mps per un ventennio, e poi ha gestito la crisi di Mps con suoi uomini di governo, tra i quali spicca il caso più clamoroso: quel Pier Carlo Padoan, ministro del Tesoro del salvataggio del 2017 e ora approdato proprio alla presidenza di Unicredit.
Vedremo presto se quelle di ieri saranno state solo forzature del Mef per chiudere salvando in qualche modo la faccia. Anche perché in caso contrario Draghi avrà un problema in più: solo 60 giorni per vendere Mps. E rispettare un impegno preso con la sua ex Bce.
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