Ma non capì che Agnelli era superato

Una mattina di primavera fui convocato a Torino e incontrai Cesare Romiti. Capii subito che stava per propormi l'incarico di Amministratore delegato della nuova società Fiat-Ford, senza immaginare che io sapevo già di essere soltanto la terza scelta

Ma non capì che Agnelli era superato

Una mattina di primavera fui convocato a Torino e incontrai Cesare Romiti. Capii subito che stava per propormi l'incarico di Amministratore delegato della nuova società Fiat-Ford, senza immaginare che io sapevo già di essere soltanto la terza scelta. In questo senso, mi fece molta tenerezza. Si dilungò a lungo sui motivi che lo avevano portato a questa decisione (...). Appena ebbe finito risposi semplicemente: «Sono pronto, quando si parte?». Mi parve sorpreso (e non ne era il tipo) di questa accettazione, immediata, senza condizioni, senza nulla chiedere in termini di ruoli, di responsabilità, di quattrini e via dicendo. I rifiuti dei primi due candidati l'avevano probabilmente turbato nel profondo. Andammo subito da Gianni Agnelli (forse per timore che cambiassi idea), fece una sintesi del suo discorso di investitura, dilungandosi in molti complimenti nei miei confronti. L'avvocato Agnelli fu, come al solito, sintetico e diretto: «Molto bene, molti auguri e buona fortuna! A proposito, caro Ruggeri è qualche tempo che volevo dirglielo, ho conosciuto Piero Fassino, le rassomiglia». Ho dimenticato l'espressione che assunse Romiti. Comunque con questo viatico originale iniziai quella che sarebbe stata la più bella avventura manageriale della mia vita (...).

Mi misi subito al lavoro selezionando una decina di miei collaboratori di secondo livello per creare una squadra giovane che mi supportasse nel definire un piano di lavoro per gestire la completa fusione di tutte le attività di Ford e di Fiat nel mondo. L'entusiasmo dei primi giorni fu spento da una telefonata che ricevetti sul mio cellulare da Palazzo Chigi, un venerdì di maggio, il 17, alle ore 17 (per chi ci crede). Era il presidente del Consiglio Giovanni Goria che aveva appena firmato il decreto di scioglimento della Federconsorzi e me lo comunicava, per cortesia, prima che lo sapessi dalle agenzie di stampa. Per noi, un disastro. Infatti da oltre novant'anni la Fiat Trattori non aveva una propria rete di vendita in Italia ma operava attraverso la rete dei Consorzi agrari che copriva, come le Poste, l'Arma dei Carabinieri e le parrocchie, l'intero territorio nazionale, con una propria presenza negli oltre 8.000 Comuni. In una notte, avevamo perso le reti di vendita, cioè tutta la nostra quota di mercato in Italia, e dovevamo chiudere l'attività nei nostri stabilimenti italiani, in quanto non eravamo più in grado di servire i nostri clienti. Tutti gli altri concorrenti si scatenarono per darci il definitivo colpo di grazia. Presi una decisione immediata, che Romiti avallò subito: avocare a me il problema ed entro un mese individuare 60-70 dealer da coinvolgere nella creazione di una nuova rete di vendita. Romiti mi mise a disposizione l'aereo Fiat, e insieme al responsabile vendita Italia, Aproniano Tassinari, utilizzando cinque week end in successione, girai per l'Italia agricola e incontrai uno a uno i potenziali nuovi concessionari, definendo ruoli e condizioni (...). Dopo un mese avevamo una nuova rete di vendita che si rivelò, salvo pochi casi, eccellente e determinata.

Ebbi il totale supporto di Romiti anche in un'altra decisione ad alto rischio. Sia Fiat che Ford avevano un quartier generale dove erano allocate tutte le funzioni di staff necessarie per la gestione mondiale della società. Il quartier generale di Ford era a Lancaster, in Pennsylvania, dove c'erano circa 350 persone. Altrettante ne aveva il quartier generale di Fiat in quel di Modena. Decisi di chiuderli entrambi con un atto d'imperio e con effetto immediato, e di aprirne uno nuovo, di sole 20 persone, ubicandolo a Londra. Questa mossa fece capire a tutti che la situazione era così drammatica che poteva portare al fallimento e che nel processo di dimagrimento si sarebbe partiti dall'alto. L'obiettivo era di togliere il tappo rappresentato dalla burocrazia dei due quartier generali e di crearne uno piccolo, snello, ubicato in un luogo, Londra, che per definizione non era portatore di eventuali legami incestuosi, non aveva vecchie scorie, e soprattutto un management legato a schemi concettuali e operativi ormai superati. La fusione tra Fiat e Ford significava integrare un insieme di storie professionali diverse, con lingue, culture, nazionalità diverse, con obiettivi personali diversi, con terribili problemi logistici. Si doveva, in tempi brevissimi, raggiungere una comune visione della vita professionale (...). Fra i tanti marchi disponibili, scelsi come nome per la nuova società quello di New Holland, un piccolo villaggio della contea di Lancaster, dove all'inizio del secolo scorso iniziò la produzione di macchine agricole e mietitrebbie: un riconoscimento importante al mercato americano. Il villaggio aveva una forte comunità Amish, grandi agricoltori che tuttora usano solo aratri tirati da cavalli e rifiutano qualsiasi tecnologia, compresa la luce elettrica. Un bel caso di «controintuizione».

Due mesi dopo la mia nomina, completata la due diligence e l'analisi dei «buchi» trovati nei conti della Ford, informai Romiti che era necessario, e subito, un aumento di capitale di 600 milioni di dollari, solo per evitare di portare i libri in tribunale. Contemporaneamente, gli presentai un breve e sintetico piano di cosa fare nei successivi sei mesi, con decisioni talmente radicali che occorreva valutarne le implicazioni economiche, sociali e di immagine, anche se io non vedevo altre soluzioni. Romiti non solo condivise questa strategia, ma volle che la illustrassi personalmente al Consiglio di Amministrazione di Fiat Holding. Mi disse che da parte sua avrebbe sponsorizzato questo piano. Così feci e conclusi il mio intervento in Consiglio affermando che se il piano proposto non avesse funzionato io ne avrei tratto le ovvie conclusioni. Nessun consigliere fece alcun commento, salvo Mario Monti che mi fece molti auguri dicendo che lui era certo che ce l'avrei fatta.

Cesare Romiti, durante il periodo del suo massimo splendore fu molto incensato (e molto temuto), poi quando cadde gli furono fatte critiche feroci, sia in termini strategici che operativi, spesso personali. La realtà fu ben diversa. Io non facevo parte del circolo ristretto dei manager che in Fiat gli erano più vicini, ma devo riconoscere che professionalmente mi diede sempre un'ampia autonomia, mi supportò nelle decisioni più difficili, riconobbe e apprezzò i risultati che ottenni. Per me fu un capo giusto e leale. Romiti era un leader vero, con una grande capacità di valutare gli uomini, di motivarli, perché umanamente era un uomo ricco, molto migliore di come venne descritto, dopo, dai media o dai suoi collaboratori invidiosi.

Oggi, a distanza di molti anni da quando cessai di lavorare con lui, c'è un altro aspetto che allora non avevo colto e che me lo fa apprezzare ancora di più. Non si sentì mai il nuovo Valletta, mai l'uomo del destino, mentre tutti i suoi successori caddero in questa sindrome. Quando valuto un manager che occupa posizioni di vertice cerco di capire quale è il mark up, cioè la valutazione che costui si auto-assegna. Ciascuno di noi tende a supervalutarsi. Fatto 1 il mark up effettivo, giudico accettabile un valore fino a 1,20. Auto valutarsi un 20 per cento in più è umanamente accettabile. Così è stato per Cesare Romiti e per la maggior parte di noi, me compreso. Purtroppo, i suoi successori si sono invece collocati sul valore massimo: 2. Come imprenditore non vorrei mai avere un Ceo con la sindrome dell'uomo del destino.

Cesare Romiti aveva la struttura e le caratteristiche psico-fisiche dell'uomo di pietra lavica, incandescente nei momenti topici, statuario negli altri. Certo, aveva fatto gravi errori, in particolare quello di non uscire da Fiat alla fine degli anni Ottanta, al culmine del suo successo, e passare il testimone a Ghidella. È probabile che in ciò sia stato forzato dal suo capo di Milano, ma uno con la sua personalità doveva imporsi a chiunque. A mio parere, fu proprio questo il suo limite, apparentemente incredibile per un uomo del suo spessore: non sapeva valutare i suoi superiori.

Constatai, stupito, che aveva una sudditanza eccessiva, pur se di diversa cifra, verso Enrico Cuccia e verso Gianni Agnelli. All'inizio pensai che fosse una forma di lealtà, giusta e doverosa, come si conviene nelle organizzazioni aziendali, dal management nei riguardi dell'azionista, poi mi accorsi che era qualcosa di molto più profondo. Era come se rifiutasse di cogliere la modestia imprenditoriale e manageriale di questi personaggi, che si muovevano secondo schemi che già allora erano vecchi e superati. Uomini molti incensati ma molto datati. Insomma, era come se rifiutasse di accettare che lui era più capace di loro, come in effetti era.

Che il grande pubblico non lo capisse era comprensibile, essendo stato Gianni Agnelli il più straordinario comunicatore del suo tempo ed Enrico Cuccia altrettanto, avendo scelto come strategia quella di non comunicare per nulla (nel mondo di oggi, la forma più sublime di comunicazione).

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