Non si svende un'emozione solo per denaro

Perché il Festival di Sanremo non è esattamente un bene o un servizio: per produrre e trasmettere un evento fatto di musica non servono né bandi né permessi

Non si svende un'emozione solo per denaro
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Se « la rivoluzione non è un pranzo di gala » dubito fortemente che il mercato immaginato da Adamo Smith si possa identificare con il palco del teatro Ariston. In Italia d'altra parte accade spesso che si faccia la cosa giusta nel posto e nel tempo sbagliati, forse per giustificare di non aver fatto invece ciò che serviva nel luogo indicato e al momento opportuno. Così accade anche, nell'economia più ingessata tra i grandi paesi del mondo, dove la concorrenza è spesso guardata come un virus contro cui vaccinarsi, dalla sanità ai trasporti, dall'energia al mercato del lavoro, che la svolta liberista debba partire dal Festival di Sanremo.

Secondo i giudici del Tribunale Amministrativo Regionale, il Comune di Sanremo dovrebbe mettere a bando, cioè in gara, il Festival della canzone italiana, a partire dal 2026. Ovvero, non dovrà essere più la Rai a trasmettere quel programma, bensì un concorso pubblico, con le regole dei bandi europei, a decidere chi avrà i diritti per la trasmissione canora. Le canzoni che hanno accompagnato ormai tre generazioni di nostri concittadini potrebbero diventare americane, cinesi di una nuova società nata apposta in qualche luogo del mondo. Ora, se c'è uno che si ritiene non fedele, ma addirittura devoto al mercato, quello sono io. Però non mi è chiaro di quale mercato stiamo parlando. Che cosa esattamente dovrebbe essere venduto all'incanto? Perché il Festival di Sanremo non è esattamente un bene o un servizio: per produrre e trasmettere un evento fatto di musica non servono né bandi né permessi. Ogni editore o produttore del paese può decidere di farlo domani mattina, sul mercato libero dell'etere. Anzi, molti lo hanno fatto nella storia recente e passata, anche con qualche successo. Il Festival di Sanremo è un'altra cosa. È una suggestione che accompagna l'Italia dai primi anni Cinquanta. È una città, Sanremo, simbolo, in origine, con il suo Casinò, i suoi fiori, il suo mare, di una nazione che risorge dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, è l'unione di questa città con il servizio pubblico radiotelevisivo, che intuisce la necessità di dare agli italiani una colonna sonora che accompagni la rinascita dopo le ore più buie. Il Festival da allora è un opera collettiva dell'ingegno: ha accompagnato mode, tendenze, economia e mutamenti sociali. Il Festival sono le centinaia di artisti che si sono avvicendati nei decenni interpretando il sentimento di un popolo, tra applausi e fischi, sono i cittadini di Sanremo, che si affollano da generazioni per chiedere autografi sul Corso davanti all'Ariston, sono le immagini della Riviera dei Fiori, che entrando nelle case a febbraio anticipano la primavera, che lì arriva un po' prima. Non sono le telecamere, le frequenze, i professionisti della tv che nei lustri hanno realizzato lo show, la ricchezza e il valore di Sanremo, che oggi qualcuno vorrebbe mettere in vendita, ma le emozioni che ha regalato a generazioni. Vi era, tempo fa, una politica che diceva: «Non si interrompe una emozione». Lo diceva per impedire che qualche istante di pubblicità all'interno di un film consentisse a Mediaset di regalare una televisione gratuita ai cittadini, la prima senza canone. Sbagliava. Oggi vedo silente quella stessa politica di fronte alla stravagante interpretazione del mercato scritta nella sentenza del Tar. Una emozione dunque non si deve interrompere, ma si può vendere al miglior offerente. Forse dopo la gara per il Festival, qualcuno immaginerà di scegliere per concorso pubblico anche il conduttore, selezionare con graduatoria gli artisti, tirare a sorte, ogni anno, il nome del teatro. Forse qualcuno interpreta così la concorrenza: invece di migliorare ciò che serve davvero ai cittadini, distruggere ciò che i cittadini guardano con successo da tempo immemore. Arriverà un giudice a dirci che il torneo di Wimbledon può essere giocato ovunque, bastano un campo erboso e le racchette, anche la Tour Eiffel, in fondo, potrebbe essere smontata e rimontata nella città che vince la gara e chi ha detto poi che la Prima della Scala si debba fare proprio lì, a Sant'Ambrogio. Chi ha vinto la gara? Adesso, c'è chi mi dirà che Sanremo non è il primo problema del paese. Vero.

L'interpretazione di ciò che è mercato, concorrenza e libertà però lo sono. Ecco, sul palco dell'Arison, ci sono «solo canzonette». Lasciamole lì, in quel teatro e su quel tasto del telecomando, che se ci stanno da quasi un secolo un motivo ci sarà. Perché Sanremo è (solo) Sanremo.

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