"Uccido a caso, sarà un bagno di sangue" Il killer col mantra del "12 rosso"

Michele Profeta è stato uno tra i più enigmatici degli assassini seriali italiani. Soprannominato il "killer delle carte da gioco" firmava i delitti con un re di quadri

"Uccido a caso, sarà un bagno di sangue" Il killer col mantra del "12 rosso"

Due carte da gioco: un re di quadri e uno cuori. È così che Michele Profeta, soprannominato il "Mostro di Padova", firmava i suoi delitti. "Ucciderò a caso", prometteva al questore di Milano nei biglietti redatti con un normografo, in cui rivendicava la paternità dei crimini commessi. Una revolver Iver Johnson calibro 32 e un colpo di pistola - tre nel secondo e ultimo delitto - dritti alla nuca della vittima. Giocatore d'azzardo, padre di quattro figli e appassionato di discipline umanistiche. Due donne, una moglie e un'amante, in diverse città. Se non il più prolifico dei serial killer italiani, sicuramente quello più enigmatico.

Un assassino seriale è, per definizione, un killer che commette almeno tre omicidi. Dunque perché Profeta è considerato tale? Se non fosse scampato alla cattura, avrebbe ucciso ancora? "Nel progetto criminale che Profeta aveva fantasticato, c'era sicuramente di uccidere altre persone. E avrebbe ucciso ancora se non avesse commesso un errore di 'ingenuità', da dilettante. Certo di essere imprendibile e in preda al delirio di onnipotenza, non si è più curato di tutte le attività relative all'autosicurezza. E così, senza volerlo, 'si è fatto beccare', per dirla in modo semplice", spiega alla redazione de ilGiornale.it il criminologo e investigatore Carmelo Lavorino, che fino al 31 maggio del 2001 è stato perito di parte nel caso Profeta.

Debiti di gioco e due famiglie: chi era Michele Profeta

Michele Profeta nasce a Palermo, il 3 ottobre del 1947, da madre casalinga e papà dirigente in una nota compagnia del gas. Durante le prime settimane di vita i medici gli diagnosticano una malformazione cardiaca, ma nulla di particolarmente invalidante. All'età di 18 anni consegue il diploma di maturità classica, poi si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Successivamente decide di abbandonare gli studi, sopraffatto dalla compulsione al gioco d'azzardo sviluppata durante l'adolescenza. È appassionato di filosofia, amante delle moto e delle arti marziali.

Giovanissimo, s'innamora di Concetta, una ragazzina minuta con gli occhi azzurri ma che la madre, una donna dal temperamento autoritario, non vede di buon occhio. Dunque Michele sposa Adriana Sorci, diventando padre di 2 figli maschi all'età di 23 anni. Viene assunto in un'agenzia immobiliare, ma dopo qualche mese i debiti contratti al gioco inficiano la carriera professionale. Sulla scia degli eventi contrari, anche il matrimonio con Adriana naufraga in un tonfo sordo.

Qualche tempo dopo Profeta trova lavoro come impiegato e si ricongiunge all'amore della vita, Concetta. I due convolano a nozze in pochi mesi e mettono su famiglia: dall'unione nascono altri due figli maschi. È il momento migliore per la vita di Michele, anche gli affari vanno a gonfie vele. Si mette in proprio, apre una sua agenzia immobiliare e acquista beni di lusso. Poi però qualcosa va storto. Mette a segno qualche colpo a vuoto e incassa una denuncia per truffa che mette in crisi l'immobiliare. Dopo qualche tempo diventa rappresentante di preziosi, poi apre un ufficio come promotore finanziario. Qui intreccia una relazione sentimentale con la sua segretaria, Antonella, ma gli affari precipitano nuovamente: finisce nelle mani degli usurai.

Dunque per sfuggire ai creditori nel 1996 si trasferisce in Veneto. Porta con sé l'amante e Concetta. Durante i giorni feriali vive con Antonella a Mestre e lavora a Padova in una società finanziaria, nei fine settimana torna dalla moglie e i figli ad Adria. Due case, due mogli, due figli e un solo stipendio che diventa una miseria all'ennesimo rovescio di fortuna. I sogni di gloria e successo naufragano miseramente, così Profeta finisce a distribuire volantini. Ma il 12 gennaio 2001 trova la soluzione ai suoi guai finanziari: chiedere allo Stato 12 miliardi di vecchie lire o farà "un bagno di sangue". Una promessa che mantiene: Michele Profeta, all'età di 53 anni, diventa un assassino seriale, "il killer delle carte da gioco".

Michele Profeta

Il primo omicidio

Il 30 gennaio 2001, un tassista padovano di 38 anni, Pierpaolo Lissandron, viene ritrovato in una pozza di sangue nell'abitacolo della propria vettura. Il taxi, la cui sigla è Pisa 14, è fermo al fondo di via Malman, a Padova, con i fari accessi. La polizia, intervenuta sul posto a seguito di una richiesta di intervento sollecitata dai medici del 118, non ha dubbi sulla natura criminosa del decesso: Lissandron è stato assassinato. Un delitto anomalo, privo di movente, consumatosi verosimilmente al termine di una corsa. La vettura ha le portiere chiuse e le chiavi sono ancora inserite nel quadro di accensione. Nulla è stato sottratto al trentottenne, né il portafogli con l'incasso della giornata (circa 400mila lire) né altri effetti personali. La vittima è stata freddata di spalle, al collo, con un colpo solo d'arma da fuoco. I tecnici della Scientifica deducono si tratti di una pistola Iver Johnson calibro 32 dalla pallottola scamiciata (senza rivestimento metallico) estratta dal cranio del cadavere. Nessun indizio del sospetto assassino, nessuna logica deduzione che indichi agli inquirenti la risoluzione del giallo. Chi ha ucciso Lissandron?

"Dodici miliardi subito o faremo un bagno di sangue"

Il primo febbraio 2001, alla questura di Milano giunge una lettera, scritta con il normografo, inviata da Padova. "Continueremo fino quando non pubblicherete sul Corriere della Sera questa inserzione: offresi tornitore specializzato, con 12 anni di esperienza", recita il biglietto recante la firma "Padova 1". La lettera è stata spedita il 30 gennaio, ventiquattro ore dopo l'omicidio del tassista Lissandron: una rivendicazione del delitto? A modo suo, l'assassino sta allertando le Autorità. "I biglietti che Profeta inviava al questore di Milano rappresentavano, da un lato la rivendicazione del delitto, dall'altro un guanto di sfida lanciato a chi gli dava la caccia - spiega il criminologo Carmelo Lavorino - Di certo sapeva benissimo che quella somma di denaro nessuno gliela avrebbe mai data. Era una provocazione. Del resto Profeta era uno spaccone".

Un'altra missiva con la stessa strana richiesta era già stata recapitata al questore di Milano l'11 gennaio precedente. "Questo è un ricatto – scrive l'anonimo firmatario – vogliamo 12 miliardi o uccideremo delle persone a caso in qualsiasi città. Sarà un bagno di sangue". A quel punto la polizia fa pubblicare l'annuncio relativo all'offerta di lavoro come tornitore sul Corriere della Sera, auspicando che l'inserzionista anonimo ponga fine alle richieste o, in alternativa, si palesi. Dopotutto potrebbe trattarsi di un millantatore, qualcuno in vena di provocazioni: l'ipotesi che dietro quei messaggi minatori ci sia la mano di un serial killer viene scartata. Ma ben presto gli inquirenti sono costretti a ricredersi.

Il secondo omicidio

L'11 febbraio a Pontecorvo (Padova), in un appartamento al civico 173 di via San Francesco, viene rinvenuto il corpo senza vita di un uomo: è riverso in una pozza di sangue. La vittima si chiama Walter Boscolo, 38 anni, ed è socio dell'agenzia immobiliare Gregoriana. Il 38enne è stato freddato con tre colpi di pistola alla nuca. L'arma del delitto è, come nel caso dell'agguato a Lissandron, un revolver Iver Johnson calibro 32. La scena del crimine però stavolta fornisce qualche dettaglio in più sul misterioso killer. Accanto al corpo della vittima ci sono due carte da gioco, un re di quadri e uno di cuori. Tra le ipotesi al vaglio degli inquirenti si fa largo per la prima volta l'idea che i due omicidi, avvenuti a distanza di 12 giorni l'uno dall'altro, siano riconducibili a un unico autore: un assassino seriale?

Nel corso delle indagini gli specialisti della Unità Serial Killer della Polizia di Stato scovano nell'agenda degli appuntamenti di Boscolo, alla pagina del 10 febbraio, l'incontro con un tale "Signor Pertini". "Profeta ha scelto l'alias - chiarisce il criminologo Lavorino – vale a dire uno pseudonimo. Peraltro non uno a caso. Il riferimento all'ex Presidente della Repubblica (Sandro Pertini), uomo amato da molti, è l'ennesima riprova di un marcato delirio di onnipotenza, della sua indole narcisista. E aggiungo,anche un tentativo di compensazione dai fallimenti personali". Sarebbe questo fantomatico "Signor Pertini" ad aver visto per ultimo la vittima l'agente immobiliare. È lui "il mostro di Padova"?

Re di cuori

Sulle tracce di Michele Profeta

L'8 febbraio, due giorni prima del delitto, l'assassino ha fissato l'incontro con Walter Boscolo nell'appartamento di via San Francesco. La chiamata è stata effettuata da un telefono pubblico dell'ospedale di Noventa Vicentina, alle ore 15.38. In men che non si dica gli investigatori riescono a individuare la scheda prepagata con cui è stata fatta la telefonata. Attraverso l'analisi del traffico in un'uscita della sim repertata, risalgono poi a una serie di utenze, tra cui quella di una anziana signora di Palermo il cui figlio vivrebbe in Veneto, tra Mestre e la provincia di Rovigo. La polizia si dà da fare per risalire all'identità del serial killer il prima possibile: bisogna evitare altre vittime.

Dopo una complessa serie di accertamenti tecnici, gli inquirenti risalgono al nome di Michele Profeta. "Profeta ha commesso un errore da dilettante - spiega il criminologo - Certo di essere imprendile, perché riteneva di essere molto più furbo di chi gli dava la caccia, non si è più preoccupato di garantirsi la sicurezza personale quando commetteva i crimini. Nel secondo delitto era completamente sopraffatto dal delirio di onnipotenza (lo prova il fatto che con l'omicidio dell'agente immobiliare ha iniziato anche a 'firmare' la scena del crimine con le carte da gioco) e quindi si è 'fatto beccare'. Ovviamente non era sua intenzione farsi catturare e, per certo, nel suo progetto criminale fantasticava di uccidere altre persone".

La cattura e il "kit da assassino seriale"

La caccia all'assassino seriale finisce a Padova, in via Carducci, pressappoco alle ore 18.30 del 16 febbraio 2001. Profeta viene fermato da un pattuglia della polizia all'uscita dall'ufficio presso cui lavora. Impassibile di fronte agli agenti, nega qualunque coinvolgimento nelle vicenda per cui è indagato. "Vi sbagliate, non sono io la persona che state cercando", afferma con aria serafica. Ma gli oggetti rivenuti a bordo della sua auto durante le attività di perquisizione fugano ogni dubbio sulla sua colpevolezza. Nella Skoda Felicia di sua proprietà vengono repertati un normografo, dei bossoli di una Iver Johnson calibro 32, una pila di carta da lettera e, soprattutto, una carta da gioco: il re di cuori.

"Ogni assassino seriale si distingue per la 'firma psicologica' del delitto e il modus operandi - spiega il dottor Lavorino - Profeta sceglie le carte da gioco per firmare l'omicidio perché il 're' rappresenta la sua indole da giocatore d'azzardo. Lui elaborava sistemi, era convinto di poter dominare la natura del gioco e quindi ha proiettato la sua passione anche sulla scena del crimine attraverso il simbolismo delle sue sconfitte. Ogni serial killer, quando riproduce la scena del crimine, si pone come vincitore. Dunque, da sconfitto qual era al gioco, nella vita e nei rapporti umani, si poneva come soggetto vincitore quando metteva a segno un omicidio. In breve, riusciva, attraverso la realizzazione di un piano criminale, a invertire le posizioni. Lui si identificava col re di picche che rappresenta la morte".

Michele Profeta - Titolo edizione Il Mattino di Padova
La prima pagina del Mattino di Padova del 17 febbraio 2001 (da Facebook)

La condanna all'ergastolo

Testimonianze, indizi che si trasformano in prove schiaccianti, alibi inesistenti e perizie balistiche inconfutabili inchiodano Profeta: è lui l'assassino seriale anche se nega tutto. Ma nonostante il pesante carico probatorio, il processo subisce numerosi colpi di scena tra avvocati dimissionari e un carosello di periti che sfila nelle aule del tribunale di Padova per giorni, settimane, mesi. L'indagato continua a professarsi innocente, riuscendo ad aggirare con astuzia gli interrogatori con risposte che non ammettono replica. La pistola? "L'ho trovata in baule, era del nonno". E il normografo? "Lo usavo per messaggi", risponde alle domande dei pm senza lasciar trapelare mai alcun segnale di cedimento emotivo. Ma l'8 maggio 2002 arriva la svolta. In Corte d'Assise a Padova, Profeta conferma il contenuto di un colloquio precedente con il professor Vittorino Andreoli: si tratta della sua confessione. Gli avvocati che lo difendono chiedono una nuova perizia psichiatria per escludere il rischio del carcere a vita. Ma la Giuria non sente ragioni e condanna Profeta all'ergastolo.

"Dodici rosso": analogie tra Michele Profeta e Donato Bilancia

Nella breve carriera da serial killer, c'è una costante che ricorre nel curriculum inglorioso di Profeta: è il numero 12. Dodici sono i giorni che intercorrono tra i due omicidi che mette a segno, dodici sono i miliardi che chiede allo Stato quando rivendica la paternità dei delitti commessi e dodici sono gli anni di lavoro del "tornitore con esperienza" nell'inserzione pubblicata sul Corriere della Sera. Anche l'appuntamento con l'agente immobiliare Walter Boscolo, la seconda e ultima vittima, è fissato per le ore 12. Un caso? No di certo. Basti pensare al caso del "killer delle prostitute" Donato Bilancia, che aveva fatto del numero 32 un mantra. "Profeta s'ispira a Bilancia - afferma il dottor Lavorino - Entrambi sono giocatori d'azzardo e hanno una vita sentimentale completamente disastrata. Tutti e due freddano le vittime con uno o più colpi d'arma da fuoco (una pistola Smith & Wesson modello 38 nel caso di Bilancia e una Iver Johnson calibro 32 nel caso di Profeta) senza mai guardarle negli occhi. Profeta, a livello istintivo, s'ispira a Bilancia: il delirio di onnipotenza li accomuna e il desiderio di riscattarsi dai fallimenti personali".

Michele Profeta tassista ucciso

"Per questo ho ucciso"

Durante i mesi di reclusione nel carcere di Voghera, Michele Profeta scrive un memoriale di 7 pagine che consegna all'avvocato Cesare Dal Maso. In quel breve scritto racconta il motivo per cui ha cominciato a uccidere: una sorta di "sacrificio rituale", stando a quanto racconta, per salvare sé stesso dalla rovina.

"Ebbene, negli ultimi giorni di novembre del 2001, mi è capitata una cosa strana... - racconta - Era una tersa mattinata di fine mese, intorno alle 13 credo, e mi trovavo a Marghera, posteggiato nei pressi del viale che porta al sottopassaggio della stazione di Mestre. Mi accingevo a compilare alcune schede sui 'calcoli delle probabilità' (sai quella mia mania sui calcoli del Rosso e del Nero e sulla loro sequenza di uscite alla roulette), quando tutto ad un tratto mi sentii chiamare per nome. Michele, Michele, Michele, era una voce calma e carezzevole. Non il solito tono che si usa quando si chiama una persona, una strana eco insomma... Ho alzato gli occhi, ho guardato in giro, ma non ho visto nessuno. 'Avrò sentito male', ho pensato, e ho continuato a svolgere i miei calcoli. Pensando: 'Ho proprio bisogno di riposare, sono troppo stressato...'.

E poi, continua: "Stavo per riprendere le operazioni quando la voce si fece risentire, ancora più carezzevole di prima: 'Michele, ascoltami, sono io…'. Posai tutto di scatto e capii: era la voce della mia madrina, morta venti anni prima. Una donna stupenda che mi aveva sempre aiutato e mi voleva un bene enorme... [...] 'Sì - mi rispose - sono qua per aiutarti, ho qualcosa su cui farti riflettere: pensa ai sacrifici che fin dall'antichità si facevano per ingraziarsi gli dei, pensa al sacrificio di Gesù, al Suo preziosissimo sangue versato per il perdono dei peccati di tutta l'umanità, pensa alle vittime innocenti sacrificate sull'altare della pace. Non si ottiene nulla senza un sacrificio... Anche tu ne devi compiere, Michele'. Poi sparì, dicendo: 'Mi farò viva io'. Quindi la voce amica mi disse che per risolvere per sempre i miei problemi (da buon imprenditore ero ridotto a fare volantinaggio), ed ottenere il perdono delle mie colpe, dovevo sacrificare 'Due vittime innocenti'. Una al 'dio del Bene' e una al 'dio del Male', persone forse contrapposte e in eterno conflitto tra loro. [...] Ma cosa devo fare? 'Te l’ho detto: non si ottiene nulla'".

Un'allucinazione o un alibi nel tentativo di farla franca? Il criminologo Lavorino non ha dubbi: "Tutti i serial killer che uccidono con arma da fuoco dicono di aver sentito questa 'voce' - spiega - Ma si tratta di confessioni posteriori all'arresto che, come nel caso di Profeta, vengono riferite molto tempo dopo. A mio avviso, credo si tratti di un espediente per dimostrare incapacità di intendere e volere al fine di evitare l'ergastolo. Se fosse vero che Profeta fosse perseguitato da queste 'voci', sarebbe stato affetto da schizofrenia. Ma non ci sono mai stati gli indicatori di una patologia schizofrenica, altrimenti alcuni segnali sarebbero emersi molto tempo prima. Ripeto, ritengo siano stati puramente degli espedienti per farla franca. Profeta era un soggetto edonista (uccideva per il gusto di uccidere), missionario, leggermente visionario e commetteva omicidi per profitto. Non aveva alcuna sindrome paranoide".

La morte di Profeta

Il 16 luglio 2004, mentre sostiene il suo primo esame universitario in storia della filosofia nella sala degli avvocati del carcere di San Vittore, Michele Profeta reclina il capo lentamente e muore, stroncato da un infarto. "Ebbe un rilassamento, piegò la testa all’indietro, socchiuse gli occhi e iniziò a tremare come in preda a convulsioni. Le guardie chiamarono i medici del carcere, lo sdraiarono ma lui agonizzava e non ci fu più nulla da fare. Profeta morì davanti ai miei occhi", racconterà nel corso di svariate interviste alla stampa il professor Davide Bigalli che ha assistito al decesso.

"Il Male se la rideva di me e poteva dire, a buon diritto - scrive Profeta nelle righe conclusive del suo memoriale - al Signore che era riuscito a strapparmi a Lui. Ecco questa è la vera storia dei due omicidi che ho commesso a Padova". Questa la storia del "killer delle carte da gioco".

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