Ora la Turchia è un pericolo per l'Europa

No all'ingresso dalla Turchia nell'Unione europea

Ora la Turchia è un pericolo per l'Europa

La vittoria di Tayyip Erdogan, triste perché tecnicamente può attribuire al presidente grandi poteri fino al 2029 e costituire un micidiale grattacapo per tutto il mondo, è tuttavia una vittoria risicata e contestata che getterà la Turchia in una fase di instabilità e può crearle alcune delle sue consuete crisi di nervi, molto dannose per tutti. Non è la vittoria che il raìs voleva, nella campagna per il cui raggiungimento ha dato dei «nazisti» alla Merkel e agli olandesi, sciorinando il sempre fertile zibaldone del nazionalismo turco. Erdogan non è il tipo che ammette che metà del Paese, quando lui gli chiede di amarlo e di considerarlo il suo legittimo Sultano, possa dissentire, che la sua Istanbul, e anche Ankara, Izmir, Adana, Antalya, cioè i centri economici del Paese, siano per il «no» al potere santificato che lui ritiene suo per volere divino.

Erdogan avrebbe voluto una vittoria totale, dal tentativo di golpe del luglio scorso ce l'aveva messa tutta per bonificare la Turchia: 140mila perseguitati e incarcerati, chiuse 169 pubblicazioni varie, dozzine di parlamentari arrestati. Erdogan è convinto che il suo potere sia una missione indispensabile per riportare il Paese alla potenza dell'impero Ottomano, farne il centro dell'islam, diventando una specie di Iran sunnita, in cui la libertà personale ha pochissima importanza e si realizza la santa profezia.

Erdogan è stato per molti anni la speranza sia dell'Europa sia degli Usa, l'unico Paese islamico ponte col mondo musulmano. Ha potuto così fare di tutto senza pagare pegno, ha lasciato che l'Isis ricevesse, attraverso il suo tacito accordo, uomini e rifornimenti attraverso i suoi confini fino a che ha cambiato bandiera del tutto nella trattativa con le varie parti. I suoi passaggi da una parte all'altra della barricata nel conflitto in Siria, le persecuzioni ai suoi compatrioti, l'accoglienza ai leader di Hamas, la incredibile furia antisemita con cui ha perseguitato Israele finché gli è convenuto, le difficoltà poste alla Nato e infine la crisi di nervi anti europea in cui ha definito la Merkel e gli olandesi «nazisti» perché hanno impedito le manifestazioni in suo favore sui loro territori nazionali mentre la sua folla gridava «Allah u Akbar».

Ormai gli americani e gli europei hanno realizzato che la Turchia rischia di perdere il glorioso marchio di Kemal Ataturk e di acquistare invece quello di Abdul Hamid, l'ultimo vero sultano ottomano modello di Erdogan, cui è dedicato un pompatissimo serial tv. Per il presidente turco la storia dell'Impero è la sua storia, il suo desiderio lo stesso dei Fratelli Musulmani (di cui è il capo politico effettivo): stabilire in Turchia e nel mondo l'indispensabile califfato che cancella le regole peccaminose dell'Occidente. Per Erdogan è stato naturale alzare la voce con la Germania e l'Olanda: la minaccia è una regola da quando sta a lui trattenere il flusso islamico verso l'Europa in cambio di una ricompensa. È tipico di Erdogan, se lo si contraddice, ricorrere a gesti sconsiderati e minacciare l'Europa in tempo di frequenti attentati, sapendo che l'esercito islamico è immenso e che si mobilita a seconda della chiamata religiosa più potente.

Sconsiderato è stato mettere a rischio i suoi rapporti con gli Usa e con altri 34 Stati sguinzagliando i suoi agenti segreti alla caccia degli uomini del nemico Fethullah Gulen, sconsiderato avere un palazzo di 110 stanze, sconsiderato essersi giocato il visto in Europa su una questione relativa alla definizione del terrorismo nel codice penale, sconsiderato gridare a Shimon Peres: «Voi sapete come

uccidere!». Ma lui è fatto così. Fino al 2029. E, a quel punto, sarà assolutamente chiaro che nessuno Stato islamico è destinato alla democrazia, purtroppo. Dispiace per noi, per Ataturk e per i turchi, anche i più islamisti.

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