Orgogliosi e azzurri. La lezione di Conte agli italiani riluttanti

Orgogliosi e azzurri. La lezione di Conte agli italiani riluttanti

Una «macchia azzurra»... È quanto ha chiesto il commissario tecnico Antonio Conte ai nostri tifosi. Qualcosa di simile, ma di opposto, a quello che fanno i rossi aficionados della Spagna, il «muro bianco» degli inglesi, il giallo uniforme degli svedesi, il verde prato irlandese... È andato insomma al cuore del problema: fatevi riconoscere, siate uniti, il cromatismo come simbolo nazionale.

Conte non è un allenatore intellettuale, non gli si conoscono passioni snob né pensieri iconoclasti e non è un caso che la nazionale da lui allenata sia stata ribattezzata «una squadra operaia»: faticano tutti, non ci sono individualità schiaccianti cui affidarsi, si soffre, si vince, o si perde, tutti insieme. È una figura dunque difficilmente accusabile di sciovinismo più o meno becero. In realtà, è un uomo semplice, dice con semplicità ciò che pensa e semplicemente vede quello che tutti facciamo finta di non vedere: la fatica di riconoscersi in quanto italiani.

Individualmente no, individualmente abbiamo anche una fierezza nazionale, il che naturalmente è un controsenso, ma è più forte di noi, è quasi un imprinting. Ci rifacciamo a una genialità plurisecolare, citiamo nomi illustri e città d'arte, i mille campanili e le altrettante piazze di struggente bellezza, ma è come se fosse un atto dovuto e una excusatio non petita: italiani nonostante l'Italia, italiani a dispetto dell'Italia. È una maledizione, per molti versi una condanna.

Certo, ci sono le ragioni storiche, il papato, i Comuni, le Signorie, i guelfi e i ghibellini, la «serva Italia di dolore ostello» di dantesca memoria, il Risorgimento «tradito», il fascismo «autobiografia della nazione», il 25 luglio e la guerra che «continua» cambiando però di cavallo e facendo finta che il fantino precedente fosse un nostro sosia cattivissimo... Le conosciamo tutti, le abbiamo più o meno confusamente imparate alla scuola dell'obbligo, ma sommessamente non sarà forse il caso di dire che, a settant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, la Repubblica italiana nata allora ancora fatica a essere vista come uno Stato, per non dire una nazione?

Ora, si può storicamente discettare sulla fragilità con cui nacque un'unità nazionale, si possono passare in rassegna i difetti dell'Italietta giolittiana e le nequizie di quella mussoliniana, ma dopo che almeno tre generazioni si sono susseguite nella nostra storia democratica e repubblicana, sarebbe anche il momento di rimettere la palla al centro e guardarsi bene negli occhi: se come italiani fatichiamo a riconoscerci in un Paese, qualche colpa le istituzioni di questo benedetto Paese la debbono pure avere, in primis l'aver considerato il nostro passato, prossimo e remoto, come una sorta di spazzatura di cui emendarsi, da cui curarsi, una cupido dissolvendi che ha finito con lo snaturare tutto e tutti, con l'irridere qualsiasi sentimento di grandezza. Paradossalmente, siamo al rovescio della massima coniata dal D'Azeglio risorgimentale: «Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani»...

No, quest'ultimi ci sono, è l'Italia che si è resa latitante.

Da onesto lavoratore, il ct Antonio Conte prova ora a metterci una pezza. E per scaramanzia non vogliamo pensare a cosa gli verrà scaricato addosso se dovesse andare male.

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