Orsini presidente. Il nuovo corso di Confindustria

Qualche decennio fa i principali quotidiani nazionali avrebbero riservato il titolo più importante della prima pagina all'elezione del nuovo presidente di Confindustria

Orsini presidente. Il nuovo corso di Confindustria

Qualche decennio fa i principali quotidiani nazionali avrebbero riservato il titolo più importante della prima pagina all'elezione del nuovo presidente di Confindustria. Se ciò non accade più, non dipende dalla caratura dell'eletto, Emanuele Orsini, che pur non essendo Gianni Agnelli ha però tutti i titoli per rivestire con dignità la leadership degli industriali italiani. Dipende dal fatto che da troppo tempo Viale dell'Astronomia non rappresenta più la pietra angolare alla quale i governi si aggrappavano per pianificare lo sviluppo economico del Paese nell'interesse generale. Modesta visione degli eletti, scarsa attitudine al confronto con le parti sociali, una burocrazia interna non sempre all'altezza ed esasperate ambizioni personali hanno segnato fortemente le ultime presidenze, riducendo alla quasi irrilevanza il ruolo dell'associazione, al punto che i governi non sentono più la necessità di un confronto diretto sulle decisioni più gravi.

È superfluo indagare sulla natura di tale deriva, ben sapendo che la responsabilità delle scelte dei candidati da portare al voto è da tempo immemorabile in capo all'Assolombarda, la potente territoriale che insieme alla piemontese Unione Industriali rappresenta la concentrazione imprenditoriale più forte del Paese. Il fatto che in questa tornata elettorale ne sia uscita sconfitta non deve però essere presentato come motivo di ulteriore indebolimento dell'associazione. Al contrario, ciò dovrebbe preludere ad un ruolo più incisivo degli imprenditori, a Roma come a Bruxelles.

Mai come in questo momento di gravi turbolenze internazionali c'è bisogno di unità interna, soprattutto nel più importante dei corpi intermedi, di unità negli obiettivi da portare in Europa per difendere le filiere industriali italiane da politiche ormai riconosciute dallo stesso Europarlamento come dannose. Una Confindustria forte e unita è anche il necessario elemento di confronto e di contrappeso rispetto alle istituzioni e a forze politiche che talvolta sacrificano ad una visione di parte la soluzione di tante questioni economiche e civili.

Orsini, imprenditore modenese del legno e dell'alimentare, si è guadagnato la fiducia dei colleghi grazie ad un servizio associativo quale vicepresidente per il fisco, il credito e la finanza che è stato decisivo sia negli anni del Covid sia nella fase di ripartenza successiva. È stato insieme compagno di banco dei colleghi imprenditori nel momento delle difficoltà, nei giorni bui della pandemia quando le fabbriche erano chiuse e le città deserte, quando solo pochissimi andavano alle riunioni decisive in presenza per impostare con il governo e con le banche gli interventi urgenti per evitare il collasso del sistema (350 miliardi di finanziamenti erogati alle imprese attraverso 2,8 milioni di operazioni), e dunque un leader che ha sempre anteposto i fatti alle parole. E della sua leadership discreta, ma ferma, il Consiglio generale di Confindustria gli ha dato atto quando ha presentato a braccio il suo programma due settimane fa: un discorso chiaro nella visione di unità, identità e dialogo ma competente sino ai dettagli su temi chiave quale l'energia (con la scelta netta del nucleare di ultima generazione), gli investimenti (che vanno fatti ripartire ed ha elencato come), la leva fiscale e il credito d'imposta oltre al cambio di passo in Europa. Tutto ciò con la certezza di saper applicare quel modello emiliano di rapporti tra imprese, istituzioni, forze politiche e pubblica amministrazione che sa mettere a terra in tempi brevi e certi gli obiettivi di politica economica utili al Paese.

L'unità interna fondata su dialogo e sull'identità perseguita da Orsini è però decisiva anche per aprire finalmente l'indispensabile fase di rinnovamento della visione, della struttura, dell'organizzazione per adeguarla al fortissimo cambiamento della società. L'associazione infatti, non solo per colpe proprie, non ha saputo mantenere a Roma e a Bruxelles la forza che ha sui territori dove le rappresentanze locali degli imprenditori sono l'interlocutore più importante di ogni decisione che riguardi lo sviluppo. Non si è accorta dell'indebolimento progressivo della tecnostruttura interna, fattore essenziale della propria proposta alle forze politiche, al Paese e all'Europa.

Per esempio, non ha saputo rinnovare l'offerta di contenuti del proprio Centro Studi, allargandone il ventaglio di temi coperti e acquisendo prestigiosi apporti esterni: accanto ai temi tradizionali come la congiuntura, l'inflazione o la finanza pubblica vanno indagati gli effetti economici di immigrazione, demografia, intelligenza artificiale e tutto ciò che serve per fare davvero la differenza nel confronto sulle scelte più delicate attraverso dati puntuali e verificabili.

Gli stessi dati che servono per una nuova fase di collaborazione con le università, dove oggi sembra prevalere nel dialogo studenti-docenti più il condizionamento reciproco venato di indottrinamento o di posizioni pregiudiziali piuttosto che l'insegnamento e l'apprendimento.

Orsini conosce a fondo il sistema associativo fatto di oltre 150mila imprese, 216 organizzazioni federate, oltre 5 milioni e 300mila lavoratori che sono il capitale più importante, sa che la forza storica di Confindustria è la capacità di sintesi tra grandi, medie e piccole imprese, la forza delle filiere che oggi vanno oltre i territori e i distretti, la capacità di fare squadra prima all'interno di una associazione di uomini liberi e poi nel dialogo con le istituzioni e le forze politiche, rispetto alle quali conteranno soltanto i risultati utili al Paese da mettere a terra, più che le rivendicazioni formali di autonomia.

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