La parabola dei due Mattei

La parabola dei due Mattei

La parabola su «Matteo S.» riguarda il Calvario. Alle 14 del pomeriggio, davanti alla stanza del governo di Palazzo Madama, Giuseppe Conte sgaiattola con la stessa abilità dei vecchi leader democristiani, per materializzarsi nell'aula in maniera discreta. È talmente serafico che sembra camminare sull'aria. «Salvini potrebbe attaccarmi!? si risponde : E perché mai!? Io che c'entro!? Ha fatto tutto da solo. Dovrebbe prendersela con se stesso. Io, comunque, non voglio rivangare il passato». I buoni propositi, si sa, nelle contese restano tali. Specie se l'avversario non li condivide. E il Salvini del Senato è più pacato del solito, ma non risparmia il repertorio su poltrone, dignità, interessi personali, voltagabbana. Un disco rotto. Così Conte risponde rimandando al mittente l'elenco dei voltafaccia e rilancia, con gli interessi, assestando la prima bordata alla leadership di Salvini nel Carroccio: «Negare gli errori è la tattica migliore per mantenere la leadership nel proprio partito». Per il Premier il copione è facile: anche il capo della polizia, Gabrielli, attacca l'ex ministro dell'Interno per aver sfoggiato per un intero anno le t-shirt degli agenti di pubblica sicurezza. È fatale: lo sport preferito nel Belpaese è sparare sulla vittima di turno, che a sua volta non aveva avuto pietà della vittima precedente: un ingranaggio infernale. E ora tutti, in primis Conte, si sono accorti che gli olè nella maggioranza giallorossa si conquistano solo criticando - arrivando quasi allo scherno - l'uomo che fino ad un mese fa era il dominus della politica italiana. Nel corridoio che costeggia l'aula si assiste all'immagine simbolo del momento: su un divano discutono amabilmente i due registi dell'operazione che ha provocato la débâcle di Salvini, Dario Franceschini e Matteo Renzi. Fino a ieri avversari, ora soci. E anche loro dispensano consigli o formulano diagnosi. «Salvini è il suggerimento di Franceschini dovrebbe andare in vacanza». «Oggi il mio omonimo diagnostica Renzi mi è apparso davvero sfatto».

La parabola su «Matteo R.» riguarda, invece, la resurrezione. Anche lui ha avuto il suo calvario, ma all'ultimo, proprio quando stava per essere eliminato, ha trovato lo spunto per risorgere. E questo, ovviamente, ha mandato su tutte le furie chi lo dava per morto. A cominciare da quel Carlo De Benedetti che, nella commedia italica degli equivoci, ha espresso sul nuovo governo lo stesso giudizio di Salvini. L'ingegnere ha nostalgia dei tempi che furono, delle categorie del 900: sogna un bipolarismo incentrato sul post-comunista Zingaretti e il Salvini sovranista (parola che nel suo pensiero ha la stessa accezione dell'espressione postfascista). Insomma, la piazza di Ravenna che intona bandiera rossa contrapposta a quella di Montecitorio con i saluti romani. In quest'ottica il capolavoro di Renzi è stato un incidente, un intoppo: non per nulla per De Benedetti l'ex segretario del Pd merita «il premio della falsità». Matteo R., naturalmente, non ci sta: «Difficile fare meglio dell'Ingegnere quando scartò le idee di Steve Jobs o quando fece fallire l'Olivetti. Comunque la frase su Renzi campione di falsità, potrebbe persino essere querelabile». Ma la replica più ficcante all'Ingegnere è quella dell'amico «ritrovato», il capo della delegazione del Pd nel governo. «De Benedetti osserva Franceschini è stato violento contro il nuovo governo. Ma gli chiedo: quale sarebbe stata l'alternativa? Andare alle elezioni ed essere sconfitti!? Se, invece, si vota tra due anni rischiamo pure di vincerle. Il problema è che il cambiamento è stato molto repentino e molti non l'hanno capito». Per cui, nell'elenco delle «incomprensioni» dell'Ingegnere, oltre a Jobs e all'Olivetti, ci sarà pure l'epilogo di questa crisi di governo.

Il vangelo dei due Mattei. È difficile non vedere delle affinità tra i due personaggi. Entrambi al Vangelo di Luca che recita «a chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra» (6,27-38), preferiscono, appunto, il Vangelo di Matteo (26,52) «chi di spada ferisce, di spada perisce». Entrambi amano rischiare. Entrambi sono spregiudicati nelle alleanze: un anno fa Renzi ha permesso a Salvini di allearsi con Di Maio; due mesi fa Salvini si è alleato con Zingaretti per far fuori Renzi e Di Maio; un mese fa Renzi si è alleato con Di Maio per mettere all'angolo Salvini. Sembra il gioco dei quattro cantoni: chi resta fuori perisce. E, ovviamente, entrambi fanno discendere le loro scelte direttamente dall'«interesse del Paese». «Mi è costato sul piano personale aprire la crisi ma l'ho fatto per l'interesse dell'Italia»: Matteo S. «Mi è costato molto sul piano umano l'alleanza con i grillini, ma l'ho fatto per l'interesse degli italiani»: Matteo R.

Ed ancora, entrambi sono dei visionari. Non sono compresi da chi gli sta attorno. Salvini ha resistito per un anno ai suoi che gli chiedevano di rompere con i 5stelle. Lo ha fatto nel momento peggiore. E ora è tutto uno sforzo a dare un senso a una scelta che un senso non ce l'ha. Tirando in ballo poteri oscuri e psicanalisi per difendere l'immagine del Salvini vincente. «Matteo racconta il leghista pugliese Roberto Marti aveva capito il gioco dei grillini dopo l'elezione di uno di loro alla vicepresidenza del Parlamento Ue, dopo l'appoggio dato all'elezione di Ursula von der Leyen, dopo la scelta di Conte di parlare al suo posto sull'affaire russo. Un caso basato sul nulla e orchestrato dai servizi segreti. Volevano mettergli il cappio e costringerlo a votare una legge di bilancio che non voleva: e lui ha rotto. Poi ora fa la vittima, ma solo perché agli italiani le vittime piacciono più dei dittatori». Poi, però, l'ex ministro Gian Marco Centinaio sbotta con un amico e ammette: «Matteo si è comportato da scemotto». E, intanto, l'addio al governo si porta dietro il primo addio alla Lega: il deputato siciliano Carmelo Lo Monte ha abbandonato il Carroccio.

Anche Matteo R. è alle prese con i suoi che non si rendono conto che nell'operazione del nuovo soggetto, del corrispettivo italiano della creatura di Macron o di Ciudadanos, i tempi contano. E, in fondo, la creazione di nuovi gruppi parlamentari, la nascita di un nuovo partito, in sintesi la ristrutturazione dello scenario politico, è l'unico modo per prepararsi all'avvento del proporzionale e darsi una prospettiva. Lui sul quando ripete e ripete, sicuro: «La Leopolda». Ma i suoi nicchiano. Eppure la scelta, il fatidico «il dado è tratto», nella mente di Renzi non prevede conseguenze traumatiche: «Non si porterebbe dietro assicura l'interessato né una crisi di governo, né le elezioni anticipate». Sarebbe solo un modo per adeguarsi alla velocità della politica. Spiega Pierferdinando Casini: «Pd e 5stelle sono destinati ad avvicinarsi, magari con una parte del movimento, anche a fondersi, perché sono entrambi deboli. In Emilia, ad esempio, si voterà a novembre, prima della legge di bilancio. E lì Pd e 5stelle stanno ragionando addirittura su una possibile desistenza. Sono processi che aprirebbero grandi spazi al centro».

Solo che in politica i tempi non sono tutto, ma quasi: se Craxi avesse fatto le elezioni anticipate nel 1991 e non avesse aspettato il '92, forse la Prima Repubblica avrebbe avuto un epilogo diverso; se Renzi fosse andato alle elezioni nel giugno del 2017, forse sarebbe rimasto in sella; se Salvini avesse abbinato le elezioni politiche alle urne europee, forse si sarebbe risparmiato questo calvario. Ora è Matteo R. che rischia, per indecisione o per altro, di perdere il treno e, nei corsi e ricorsi della Storia, restare appiedato.

Augusto Minzolini

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