A volte il paradosso nel nostro Paese supera i confini della realtà. È il caso del documento dato alla luce ieri dal comitato centrale dell'associazione magistrati, che già nel nome richiama un organismo classico dei partiti comunisti di un tempo. Nel testo la politica - cioè il governo e la sua maggioranza - viene accusata in sintesi di attaccare «i giudici per screditarli e assoggettarli». Ora chiunque abbia avuto la fortuna, e per alcuni versi la pena, di vivere o studiare gli ultimi trenta quaranta anni di storia del Paese, o magari si prendesse la briga di rileggere le cronache di questi decenni, avrebbe la conferma che è vero l'esatto contrario: cioè che è stato il potere giudiziario a condizionare e in casi non rari ad assoggettare la politica. Basta ricordare il numero di crisi di governo e di defenestrazioni di ministri provocate da inchieste giudiziarie che poi non hanno avuto alcun esito. A cominciare dal primo governo Berlusconi che andò in crisi per un avviso di garanzia che poi portò ad un nulla di fatto.
Se poi qualcuno persiste nell'essere diffidente verso una tesi di questo tipo, dovrebbe solo leggere qualche pagina delle memorie di un ex-presidente della stessa Anm, cioè Luca Palamara. Ma in fondo è lo stesso documento di ieri che confuta la tesi del sindacato dei magistrati e magari diventa una prova a carico per dimostrare il contrario: l'Anm infatti in quelle pagine contesta anche gli ultimi provvedimenti del governo in materia di immigrazione. Ora uno può dire ciò che vuole ma a che titolo un organismo che si muove nell'ambito del potere giudiziario sindaca, critica o, addirittura, minaccia di non applicare un provvedimento del governo, cioè del potere esecutivo. I giudici dovrebbero, appunto, applicare la legge, al massimo interpretarla, oppure - ma è già tanto - offrire suggerimenti, di certo non possono diventare interlocutori nell'elaborazione di un provvedimento o addirittura bocciarlo. In questo caso la divisione tra i poteri e l'equilibrio costituzionale vanno a farsi benedire, cosa che in Italia purtroppo è successa da parecchio tempo.
E probabilmente il vero problema è proprio questo: per troppo tempo il potere giudiziario è uscito fuori dal suo alveo costituzionale, si è arrogato competenze, prerogative, addirittura diritti che non sono i suoi. Per cui adesso nell'immaginario di categoria delle toghe, o almeno di una parte di esse, chi richiama la magistratura ai suoi doveri e, magari traccia i confini d'influenza ricordando il dettame costituzionale, appare alla stregua di un marziano. Siamo, per usare un'espressione che va di moda oggi, al mondo alla rovescia.
E in questo mondo costruito da anni di retorica, di ipocrisia e di paura da parte della politica, oggi la cosiddetta magistratura, quella parte che è convinta di essere un pezzo della politica, si sente aggredita. Non vuole perdere il dominio - perché di questo si è trattato - che ha conquistato in questi anni nel decidere una legge dello Stato o, cosa che tollera ancor meno, una riforma che la riguardi.
Purtroppo, però, il mondo è cambiato: negli Stati Uniti è stato eletto un presidente sottoprocesso; in Italia ha vinto la maggioranza di un governatore che era stato arrestato. Certo non è tutto oro ciò che luccica, ma la colpa è innanzitutto e soprattutto di chi in questi anni ha amplificato la sua sfera d'influenza, ha oltrepassato i confini del suo ruolo, in poche parole ha esagerato.
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