Partite Iva con pochi diritti: “Impossibile diventare mamme”

Vantaggi e svantaggi di essere una madre lavoratrice autonoma. E il Jobs Act di Renzi non ha risolto tutti i problemi

Partite Iva con pochi diritti: “Impossibile diventare mamme”

Ci sono pure dei vantaggi, non c’è dubbio. Gli orari, l’organizzazione del lavoro, il poter scegliere quando e come passare del tempo con i propri figli. La flessibilità è l’aspetto più apprezzato del lavoro autonomo e le mamme con la flessibilità vanno a nozze. Poi però ci sono tutti gli altri aspetti relativi alle (poche) tutele: il rischio di perdere clienti quando si partorisce, la fatica di dover “ripartire da zero” dopo l’allattamento, l’obbligo di adattare il proprio mestiere alle esigenze del bimbo senza poter chiedere un impiego part time.

Il Jobs Atc

Non è difficile capire quanti e quali diritti può vantare la grande famiglia delle partite iva, dei piccoli imprenditori, degli artigiani, dei liberi professionisti e dei commercianti. Ogni categoria ha tutele proprie e differenziate. Pochi mesi fa il Parlamento ha approvato in via definitiva quello che Matteo Renzi aveva presentato come il “Jobs Act degli autonomi”. Passi in avanti, ma non da gigante. È stato riconosciuto il diritto ad essere pagati entro e non oltre i 60 giorni, la possibilità di interrompere i contributi fino a due anni in caso di malattia invalidante (ma il debito andrà rateizzato in futuro) ed è nata la definizione di smart working. Poi è diventata strutturale l’indennità di disoccupazione (per i co.co.co.), le spese per la formazione sono deducibili al 100% (fino a 10mila euro) e ci sono novità anche per malattia e infortuni: in caso di patologie oncologiche dal punto di vista economico vengono riconosciuti periodi di assenza alla pari della degenza ospedaliera e per chi presta attività continuata è possibile sospendere il rapporto di lavoro per 150 giorni. Salvo - e qui arriva la fregatura - il committente non comunichi il venir meno dell'interesse. Frase che annulla gli effetti positivi della norma.

Partite Iva: infografica Jobs Act

"Ho paura a diventare mamma"

Sembra una rivoluzione. In realtà sono briciole. Solo lo 0,72% dei contributi versati delle partite Iva all’Inps finiscono col finanziare il loro welfare. Poco o niente. E la maternità è uno dei nodi cruciali della questione. “Ho paura di affrontate una gravidanza”, racconta a ilGiornale.it Annarita S'Urso, piccolo imprenditore. Il suo negozio biologico ha all’interno anche un bar e un ristorante. Gestirlo non è cosa da poco: “Ogni volta che penso ad avere un bambino - dice - sopraggiunge il timore di affrontare il periodo della maternità. Come faccio a lasciare la bottega per cinque mesi? Io oggi vado al lavoro anche con la febbre, dovrei farlo anche incinta. E se poi arriva una complicazione? Non si può fare”. Mancano le condizioni per prendere una decisione in serenità. “Il rischio di impresa è alto e non nessuno ti sostiene”. La soluzione potrebbe essere la riduzione del carico fiscale per le mamme autonome? “Assolutamente sì - spiega Annarita - basterebbe non pagare l’Inps per i 9 mesi di gravidanza e per i primi mesi di vita del bimbo: sarebbe già un cambiamento enorme. Oppure servirebbe un’agevolazione vera per l’assunzione di un dipendente che mi sostituisca”.

Vantaggi e svantaggi

Il problema è che una volta conclusa la maternità, il rientro al lavoro è decisamente complicato. Mentre una dipendente riprende il suo posto alla scrivania come se nulla fosse, un autonomo deve entrare di nuovo nel mercato. Lo sa bene Alessia Borgonovo, giornalista che dopo alcune esperienze nei quotidiani ora si occupa di comunicazione. Con la partita Iva ha partorito due bambini e conosce vantaggi e svantaggi di una posizione che ti tiene sempre “sul filo del rasoio”. “Dal punto di vista organizzativo - racconta - è utile: le lavoratrici dipendenti devono seguire degli orari fissi, mentre a me la flessibilità permette di organizzare il tempo con i miei figli”.

Il prezzo da pagare, però, non è indifferente. “Gli sconti fiscali per le mamme partite iva sono troppi pochi: non vanno in detrazione i costi della babysitter e le tutele non sono sufficienti, soprattutto per quelle a rischio". Per carità: i voucher baby sitter e asilo nido (600 euro mensili) esistono, ma se per le lavoratrici dipendenti dura sei mesi, per le autonome solo tre. "Io sono stata a casa per la gravidanza 8 mesi e non ho avuto sostegni. Ho partorito due gemellini e ho ricevuto l’assegno per la maternità come se ne avessi messo al mondo solo uno. Mio marito per aiutarmi ha chiesto le ferie, perché i giorni di paternità erano una farsa”.

Partite iva: contributi2

Poche tutele

A conti fatti, i benefici sono inferiori a quelli goduti da una dipendente. Mancano le ore di allattamento retribuito e la garanzia di non licenziamento fino ad un anno di età del figlio. Le nuove regole del Jobs Act, va detto, hanno migliorato la situazione. Ma non in maniera radicale. Ora la lavoratrice autonoma in gravidanza può continuare a fatturare (prima era obbligata a fermarsi), ha diritto alla maternità obbligatoria di cinque mesi (due prima del parto, tre dopo) e se vorrà seguire il bimbo per sei mesi entro i primi 3 anni di vita (per le dipendenti si arriva fino ai sei anni) può chiedere il congedo parentale. Inoltre, esiste la possibilità di nominare un sostituto di fiducia per il periodo di assenza. Il problema è che la realtà alla fine cozza con la genericità delle leggi.

Come nel caso di Marta, libero professionista e madre di due bambine, una delle quali appena partorita. Per la prima gravidanza si è vista rifiutare il congedo parentale perché non aveva guadagnato abbastanza. A chi è iscritto alla Gestione separata, per maturare il diritto occorre aver versato nei 12 mesi precendenti almeno 3 mensilità di contribuzione (con aliquota maggiorata). Il calcolo è presto fatto: "Il minimale Inps nel 2015 era di 15.548 euro e l’aliquota della Gestione separata al 27,72% - racconta Marta - Di conseguenza i contributi annui da versare erano di 4.309 euro. L’inps richiedeva almeno 3 mensilità, quindi almeno 1.077 euro. Io ne avevo pagati solo 347, perciò non ho muturato il requisito per accedere al congedo". E lo Stato non si è impietosito neppure quando si è scoperto che la gravidanza di Marta era talmente a rischio da costringerla a rimanere sei mesi a letto. Senza poter lavorare.

Partite iva: contributi1

La legge del mercato

“Quando stai a casa per il parto - spiega Alessia - esci di fatto dal mercato. Poi bisogna ripartire da zero. Io sono stata costretta a chiudere alcune consulenze e a scegliere quali clienti seguire e quali abbandonare. Con dei figli non puoi essere reperibile ad ogni ora del giorno. E questo nel fatturato finale incide parecchio”.

La differenza è tutta qui. Un dipendente, soprattutto a tempo indeterminato, assentandosi per mette al mondo un bimbo non rischia riduzioni di stipendio. Le partite iva invece viaggiano costantemente su una montagna russa. “Se c’è un momento di crisi economica il primo a rimetterci è sempre l’imprenditore”, aggiunge Alessia. “E poi gli anni non sono tutti uguali, il fatturato è altalenante. E se un dipendente può chiedere il Tfr, noi autonomi dobbiamo risparmiare, tasse permettendo, in modo da affrontare ogni evenienza. Facciamo affidamento sempre e solo sulle nostre forze”.

Il sogno allora sarebbe quello di ottenere una netta riduzione delle tasse.

Magari specifica per le madri che scelgono la via della partita iva. “Aiuterebbe molto, forse più di quanto non possano fare le tutele di cui godono le lavoratrici dipendenti - conclude Alessia - Se non dovessi pagare così tante imposte, potrei pagarmi tutto da sola”.

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