Il Pd si aggrappa a Letta: "Scelto per disperazione"

Confessionale Pd. Nel primo corridoio che immette nell'aula di Montecitorio l'ex ministra dei Trasporti Paola De Micheli, una "lettiana" d'antan messa alla sbarra per l'insuccesso del Conte bis

Il Pd si aggrappa a Letta: "Scelto per disperazione"

Confessionale Pd. Nel primo corridoio che immette nell'aula di Montecitorio l'ex ministra dei Trasporti Paola De Micheli, una «lettiana» d'antan messa alla sbarra per l'insuccesso del Conte bis, si sfoga sui limiti del Pd e spera in Letta. «Io a 16 anni ero nella sinistra Dc - esordisce - e in quel partito le correnti erano una cosa seria. A paragone di quel mondo oggi nel Pd siamo alle monadi, ognuno pensa a se stesso e tutto si basa sui rapporti personali: amicizie che si confrontano guardando ai propri interessi. L'ipotesi Letta? Sono nata con lui. La sua scuola ha espresso, pensando solo all'ultimo governo, due ministri, io e Boccia. Ma Letta è pronto a fare il segretario solo se gli assicurano agibilità politica, se può arrivare fino al 2023. Puoi chiamare uno che ha il suo status a livello internazionale per un incarico a termine? Ma su, non scherziamo! La verità è che rispetto alla crisi in cui versa non c'è nessuna reazione nel Pd. Meglio i grillini, saranno considerati scemi, ma almeno stanno provando a mettere in piedi qualcosa con Conte».

Confessionale Pd. Altro «lettiano» di vecchia data, altro ex ministro imputato per il triste epilogo del governo di Giuseppi, Francesco Boccia. «Enrico? Lo conosco da trent'anni - racconta nel corridoio dei passi perduti - me lo presentò Beniamino Andreatta. Avevo avuto una piccola esperienza nella sinistra Dc alle elezioni universitarie. La linea politica di Enrico? Intanto rimettere insieme i cocci e pacificare perché rischiamo la fine. Ecco perché quest'esperienza deve arrivare fino al 2023. Sulla linea politica ci confronteremo, partendo dal presupposto che dobbiamo dare sostanza alla nostra presenza nel governo: se non facciamo ora la riforma fiscale non la faremo più».

Confessionale Pd. Matteo Orfini, altra corrente, viene dal Pci, non è mai stato lettiano né contiano, ma alla fine direbbe di sì pure lui a Letta a determinate condizioni. «Zingaretti - spiega - si è dimesso per gli errori commessi. Non per altro. La politica è spietata: è stato sconfitto sul Conte ter quando all'inizio non voleva neppure fare il Conte due. Dovevamo prendere un pezzo dell'elettorato grillino e, invece, rischiamo di regalargli un pezzo del nostro. Letta? Va bene per la transizione, anche perché le alternative sono peggio. Ma non può arrivare al 2023 senza un congresso. Conviene anche a lui. Penso che sia il non detto dell'accordo. Poi ha tutta la mia simpatia, è un amico, ma deve spiegare quale sarà la sua linea politica. Non basta dire solo Draghi va bene. A me interessa il futuro, ad esempio, sapere se anche per lui Conte deve essere il leader di una coalizione tra noi e i 5stelle».

Paradosso dei paradossi. Gratta gratta ti accorgi che nel Pd ci sono più ex democristiani di quanto pensi. Ma nella Dc delle correnti nessuno si sarebbe mai sognato di eleggere un nuovo segretario sulla base del nome, senza legarlo ad una linea politica: per far due esempi, Benigno Zaccagnini fu eletto per aprire al Pci, Arnaldo Forlani per chiudere. Letta, invece, per usare le parole devastanti di Rosa Maria Di Giorgi, «lo si elegge per disperazione». Appunto, più che una scelta è un obbligo. «Si fa Letta e buonanotte», ammette Piero Fassino, un altro che è stato in corsa per il ruolo di garante. Mentre Graziano Delrio è più esplicito: «Speriamo che sabato dica di sì, perché se no osserva laconico mentre si punta una mano a mo' di pistola sulla tempia ci spariamo». Solo che il nome di Letta uscito dal cilindro di Franceschini e dalla bombetta del conte Gentiloni sembra nato più dall'esigenza di individuare una mediazione tra le correnti che non da una valutazione di rilancio del partito. Anche il paragone che ha fatto qualcuno, ribattezzandolo il Draghi del Pd, non calza. Certo l'ex premier ha un ottimo rapporto con l'attuale inquilino di Palazzo Chigi, ma l'ex governatore della Bce è da sempre accompagnato da un'immagine vincente, è l'uomo del «whatever it takes»; Letta, invece, ha appiccicata addosso la foto del premier che passa con disappunto «il campanello» al suo successore, Matteo Renzi. Un'esperienza che lo lega a Conte. «Sono i due gemelli diversi ma uguali sostiene un politico che è stato avversario di entrambi -: più che capaci di fare le cose, sono capaci a rinviarle; mancano di empatia, ma, nel contempo, sono maniaci della comunicazione».

Solo che «per disperazione» oggi il gruppo dirigente del Pd, per non esplodere, ha in mano solo quel nome anche se la sinistra di Andrea Orlando, tutti sanno, è fuori di sé e «base riformista» di Lotti e Guerini non ride. Ma per gli strani meccanismi che solo un tattico come Franceschini riesce ad escogitare, tutte e due le correnti sono costrette a dire di sì. Ieri il ministro della Difesa ha fatto la sua passeggiata in Transatlantico per spiegare ai suoi che la nomina di Letta è una cosa che «sa da fare» e che l'intignare di Orlando e soci sull'esigenza di garantire il mandato del nuovo segretario fino al 2023 - il che tradotto in termini di potere, significa che sarà lui a decidere le liste elettorali delle prossime elezioni politiche - è un modo per far saltare i nervi agli altri: «Da una parte ci provocano - ha spiegato Guerini per farci insorgere e intestarsi il nuovo segretario; dall'altra Orlando e Zingaretti, per tenere unita la corrente, debbono dimostrare che sul piano dei seggi nel prossimo Parlamento - possono ancora mantenere le promesse».

Insomma, non si valuta la linea politica, ma gli equilibri di Potere. O, al massimo, devi accontentarti dell'equazione di Stefano Ceccanti: «La linea spiega è Draghi, perché i nostri sinistri pensano che Conte sia meglio di Draghi. È questa la linea divisoria dentro il Pd».

Questo per il presente, ma per il futuro? Non c'è risposta. Magari ti dicono che Letta si cimenterà nelle suppletive per un posto alla Camera, in fondo viene da lì. O, ancora, che a questo punto, visti i rapporti tra i due, il Pd, se Zingaretti non farà le bizze, appoggerà Carlo Calenda per il Campidoglio. Tutti fatti che non caratterizzano, però, l'immagine del nuovo segretario. «Una valle di lacrime si sfoga l'ex sottosegretario Luciano Pizzetti -, un partito irriformabile. Decidono tutto i capi tribù. Zingaretti va via scandalizzato, sbattendo la porta, ma non ha cambiato nulla, da segretario ha aggiunto solo un posto a tavola. All'ombra del governo Draghi si muovono tutti, dalla Lega ai 5stelle. Noi, invece, siamo capaci solo di sparare su qualsiasi cosa dica Renzi». In fondo l'unico dato politico dietro all'elezione di Letta, per i suoi trascorsi, è proprio questa avversione verso l'uomo di Rignano.

Lo stesso Renzi fu facile profeta un mese fa, quando creò le condizioni del governo Draghi, quello che il Pd ora dice di voler sposare senza se e senza ma: «L'anti-renzismo ormai è l'unico collante della sinistra, come venti anni fa lo era l'anti-berlusconismo».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica