Il pensiero debole dell'"islamofobia". L'Europa sceglie il nemico sbagliato

Il timore di criticare l'estremismo musulmano ha reso l'Occidente incapace di difendersi

Il pensiero debole dell'"islamofobia". L'Europa sceglie il nemico sbagliato

Guardate agli inglesi. Se il cancelliere tedesco Olaf Scholz, dopo l'attentato islamico di Solingen, appare quasi come un «islamofobo» (solo perché ha parlato di «rabbia contro gli islamisti», e perché ha annunciato un piano per accelerare le espulsioni degli irregolari) voi guardate alla cultura anglosassone: quella che, più di ogni altra, ha reso impossibile ogni critica al mondo islamico in virtù di una presunta «islamofobia» che ci ha resi incapaci di difendere i valori occidentali e la libertà della donna. Guardate alla fretta con cui, dopo l'attentato di Solingen, i nostri media si affrettano a cambiare discorso. Guardate al silenzio con cui è stato accolto l'editoriale di Ernesto Galli della Loggia (Corriere) domenica 18 agosto, dedicato proprio a questi temi, oppure ai talk show che invitano dei musulmani che deprecano la nostra «cultura patriarcale» - loro, sì. Sono essenzialmente gli inglesi a tenere vivo questo cortocircuito tra linguaggio e libertà e che ha inquinato i media, le istituzioni, le università, insomma la società.

Prendete il silenzio imbarazzato che nasconde, ora, ogni simpatia per l'Iran in chiave anti-Israele. Prendete la morte di Mahsa Amini nel 2022, una 22enne che la «polizia morale» iraniana fece arrestare perché le fosse impartita una «lezione informativa» che si tradusse nella sua morte; ciò che accadde, poi, è cronaca: tantissimi giovani iraniani marciarono contro l'imposizione della legge sull'hijab obbligatorio per le donne. Ebbene, quelle proteste contro l'oppressione, quei cortei con le manifestanti iraniane che additavano l'hijab come strumento di sottomissione (sarebbe il velo islamico, oggi prodotto anche dalla Nike) oggigiorno, in Inghilterra e in Occidente, configurerebbero il reato di islamofobia. Maryam Namazie, un'esule iraniana e critica del patriarcato islamista, proprio in Gran Bretagna è stata bollata come islamofoba (le impedirono di parlare all'Università di Warwick) perché denunciò le stesse cose; gli studenti la contestarono e Il Guardian si schierò con loro. Un po' com'era successo quando la Bbc, dopo una precedente rivolta iraniana contro l'hijab obbligatorio, nel 2018, intervistò una delle manifestanti: lei disse «quando indosso l'hijab è come se fossi limitata, oppressa, quando non lo indosso invece mi sento libera». Ebbene, tutta la stampa inglese riprese le critiche del Muslim Council of Britain che aveva definito l'intervista della Bbc «islamofoba», questo perché aveva indotto a pensare «che l'hijab sia generalmente oppressivo». E non si deve pensarlo: in Iran le punizioni per chi critica l'Islam sono severe, il codice prevede la morte o se va bene una pena detentiva sino a cinque anni, per un insulto all'ayatollah sino a due anni o, come «condizionale», settantaquattro frustate. Da noi c'è solo il reato di islamofobia (o la Legge Mancino) che però ti marchia dopo averti inflitto severe condanne penali, e al Giornale, sul tema, vantiamo ottime competenze.

Il problema, pare, è che l'Occidente non ha tutto il tempo del mondo: nel 2020, a Minneapolis, l'uccisione di George Floyd diede vita a settimane di proteste, ma, viceversa, l'uccisione di centinaia di iraniani che chiedevano libertà ha trovato un po' meno posto: nessun intervento di star di Hollywood o di sportivi famosi, nessun inginocchiamento. E, a proposito di sportivi, il ginnasta britannico Louis Smith fu semmai sospeso dall'attività sportiva per due mesi: in un video, infatti, «sembrava prendere in giro l'Islam» per via di un inciso umoristico sulle settantadue vergini che i maschi musulmani potrebbero incontrare in paradiso.

Nel 2019, invece, un 54enne del West Yorkshire fu licenziato dal negozio per aver postato sulla sua pagina Facebook un video di una scenetta comica che prendeva in giro l'Islam e altre religioni. Nel 2020 fu licenziato anche un capotreno della West Midland Trains per aver celebrato la riapertura dei pub (dopo il lockdown) scrivendo su Facebook «grazie al cielo i nostri pub sono aperti, non possiamo permettere che il nostro stile di vita diventi una sorta di califfato musulmano senza alcol». Licenziato. A Richard Dawkins, celebre scienziato ed etologo, fu impedito di tenere un discorso al Trinity College di Dublino per le sue opinioni sull'Islam, che aveva definito «la più grande forza del male nel mondo di oggi». Il think thank britannico «Runnymede», intanto, definiva l'islamofobia «una forma di razzismo simile all'antisemitismo».

Anche il linguaggio ne risente e si è fatto «de bois», di legno. Qualcuno ha tentato di parlare di «islamisti» per non dire islamici; un tempo si diceva «maomettano» cui seguì «musulmano»; dopo l'11 settembre 2001 hanno tentato di introdurre un «islamista» o «fondamentalista», ma i problemi restano. Non si sa come chiamare, in pratica, qualcosa che respinge la separazione tra Stato e religione, non contempla la democrazia, esclude la parità di genere, nega l'eguaglianza, ammette le pene corporali, contempla la sottomissione del nemico, e anche l'odio. Tutta roba che fa parte (anche) del bagaglio «culturale» dei terroristi.

Così esistono gli islamici, esistono i terroristi islamici, esistono gli anti-islamici (che antipatizzano per i loro valori) e poi esistono gli islamofobi, che odiano l'islam perché ne hanno paura. E forse è così: i veri islamofobi sono coloro che parlano di «nemico», ma hanno persino il timore di pronunciarne il nome.

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