Congetture di un leghista, Stefano Candiani, per un anno nella stanza dei bottoni (ex sottosegretario al ministero dell'Interno), sulle misteriose (e perverse) connessioni tra il pianeta della Politica e quello della Giustizia, alla vigilia della decisione del Senato sulla messa in stato d'accusa di Matteo Salvini per la vicenda Open Arms. Prevede Candiani: «Non andrà bene. Ci vorrebbe che un pezzo di maggioranza, per far prevalere le ragioni del diritto, sacrificasse le ragioni di governo, ma non è aria. Il problema è che sono tutti sotto schiaffo della magistratura, da Zingaretti a Renzi, a noi. E il ragno che sta tessendo la tela dove tutti sono rimasti impigliati è Conte. Solo che quando capiterà a Zingaretti o a Renzi non potranno richiedere la nostra solidarietà». Siamo alle solite: mentre il network politico-giudiziario che mette insieme i grillini, il giustizialismo di Travaglio e il pezzo più militante della magistratura, è efficace nella sua «geometrica potenza» per ridurre a miti consigli gli alleati del momento e per eliminare gli avversari; gli altri, quelli di quel Palazzo in disarmo che è la Politica, sono divisi tra loro, per pseudoideologie e calcoli non sono legati da nessun tipo di solidarietà e, ancora peggio, cercano paci separate o di conquistare con i loro comportamenti effimere benemerenze con quel mondo. Risultato: vengono ridotti al silenzio ad uno ad uno.
Va avanti così dai tempi di Bettino Craxi e forse oggi è ancora peggio, visto che in passato non esisteva un partito giacobino come i 5stelle che avesse nel patrimonio genetico la missione dichiarata di mettersi al servizio della frangia più «interventista» della magistratura. Le cronache di questi giorni sono alquanto esplicative: i leghisti sono sotto il fuoco di un'offensiva giudiziaria (da Salvini a Fontana) paragonabile a quella a cui fu sottoposto Berlusconi; l'ultimo rinvio a giudizio ha colpito Luca Lotti, un personaggio che per storia è a cavallo del Pd e del renzismo; Zingaretti è nel mirino per più di una vicenda e il suo nervosismo di queste settimane nasce proprio da questa condizione (come pure la voglia di un rimpasto di governo che lo metta a riparo); Renzi continua a essere assediato; non parliamo poi di Forza Italia che come vittima di questo trattamento ha il copyright. L'unico che gode di una sorta di «salvacondotto» è l'attuale premier, il «protetto» di Travaglio. A parte la vicenda da reality show che ha visto protagonista l'ex compagno cubano del portavoce Rocco Casalino, il premier che, secondo il prof. Cassese, si è messo sotto i piedi la Costituzione, che è stato accusato di non avere affrontato adeguatamente l'epidemia (più o meno come il governatore della Lombardia), dimostra di godere di una sorta di vaccino che lo protegge dal protagonismo delle Procure. Addirittura il giorno dopo che ha chiesto al Parlamento di protrarre lo stato d'emergenza, è ricorso contro la sentenza del Tar che toglieva il segreto agli atti del comitato scientifico che ha gestito l'epidemia: non fosse altro per «trasparenza» (il vocabolo più amato dal grillismo nostrano) o, almeno, per dimostrare che non ha nulla da nascondere, avrebbe potuto evitare.
Ma il personaggio Conte si sente forte, anche perché ha un'inclinazione naturale a servire i Poteri e, ormai da trent'anni, quello della magistratura è sicuramente il più forte. Tant'è che in un momento in cui i giudici non vanno per la maggiore nel gradimento della gente, che le intercettazioni dell'ex presidente di Anm, Luca Palamara, hanno messo sotto i riflettori quel mondo, e che tra le riforme richieste dall'Ue c'è innanzitutto la giustizia, lui non ne parla proprio. Ed è forse qui il segreto del governo «calabrone», che per limiti e per incapacità dovrebbe essere caduto già mille volte, e, invece, è ancora in piedi. Un'analisi dell'attuale situazione che Luca Palamara, gran conoscitore dei meccanismi giudiziari applicati alla politica, condivide: «Su Salvini sta avvenendo quello che dicevo io. Conte? Diciamo che la magistratura non lo sente ostile...».
Tradotto significa che, a differenza di tanti altri, Conte non è certo tra quelli che si è messo in testa di riaffermare il primato della politica, che, invece, è il cuore del «caso Salvini». Eh già, perché oggi il Senato dovrà decidere se una decisione politica - discutibilissma, criticabilissima che sia - possa essere giudicata in un tribunale alla stregua di un reato. Se un ministro dell'Interno, magari parlando dell'oggi, possa valutare, ad esempio, che sia opportuno tenere in stato di fermo su una nave, per un rischio di contagio o per problemi di sicurezza, degli immigrati clandestini. Un tema che purtroppo - o per calcolo, o per paura - è ignorato da una parte della classe politica di questo Paese e, in special modo, da un governo che è il punto di incontro tra gli eredi delle toghe rosse e i giustizialisti di rito davighiano. Un argomento che mette in torsione specie quella parte dell'area moderata a cavallo tra la maggioranza e l'opposizione, di ispirazione garantista, che ha i voti per essere decisiva nell'affaire Salvini.
A cominciare dall'area renziana dove c'è la divisione tra chi antepone il diritto al calcolo politico, e viceversa. Pier Ferdinando Casini si è già schierato contro il processo. Lo stesso vale per Giuseppe Cucca, tra quelli che ieri non hanno messo il lutto per il siluramento della candidatura dell'ex magistrato Pietro Grasso alla commissione Giustizia: «Quella di Salvini è stata una decisione eminentemente politica. Lo capirebbe anche l'ultimo dei miei praticanti». C'è, invece, chi, come il capogruppo Faraone, antepone per miopia politica le gite sulle navi Ong al diritto. In mezzo c'è il travaglio di Matteo Renzi. Questo è il ragionamento che l'ex premier ha fatto ai suoi: «Salvini è un perseguitato? Sì. La sua è stata una valutazione politica? Sì. La decisione di tenere quei poveretti per giorni su quella nave, corrisponde all'interesse generale? No. Il punto è che il quesito posto al Senato riguarda quest'ultimo punto. Allora io posso ingaggiare una battaglia sul tema del rapporto tra politica e giustizia, che ho sollevato io stesso da solo il 12 dicembre in Senato, su un merito che non condivido? Ho dei dubbi».
Discorso che ha un senso, ma che dimentica, o fa finta, quanto la questione giustizia sia prioritaria. Bisognerà ora vedere se l'ex premier si rifugerà nell'astensione, che comunque non salverà Salvini, come farà l'unico senatore di Carlo Calenda, Matteo Richetti. «Io non conosco bene la vicenda - spiega lo stesso Calenda - ma la distinzione tra decisione politica e reato giudiziario è una questione significativa».
Alla fine, però, la politica andrà anche questa volta in ordine sparso, con grande gioia dell'altro Potere che continua a tenerla, la sua spada di Damocle.
«La vicenda Fontana è l'ultima cazzata - osserva Gianfranco Rotondi, nel ruolo dell'Erodoto delle ultime tre Repubbliche - e il gioco, come con Renzi, è sempre lo stesso. La magistratura è l'utilizzatore finale: altri Poteri commissionano un dossier, un giornale amico lo pubblica e, appunto, la magistratura l'utilizza. È la storia degli ultimi trent'anni di questo Paese».
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