Perché si fanno male? Perché, addirittura, vogliono uccidersi? Nel crescendo di sfide e prove autodistruttive che gli adolescenti si sono imposti negli ultimi anni, la vicenda Blue Whale segna una svolta. Innanzitutto per l'ambiente fisico in cui nasce. Le sfide alla morte sui tetti dei treni o quelle in autostrada nascevano nella banda, all'aria aperta, per la strada. Blue Whale, invece, prende forma nel chiuso della cameretta dell'adolescente, nella sua massima solitudine, rotta solo dal computer e dalla società virtuale di internet, già teatro degli Hikikomori, i «ragazzi autoreclusi». Una delle più devastanti (e taciute anche dai genitori, impietriti dal terrore) patologie degli ultimi anni. È nell'isolamento della cameretta che arriva la mail del curatore, postmoderno direttore spirituale che ti detta via web le regole non per realizzare la tua vita e personalità, ma per ucciderti sfracellandoti sull'asfalto.
Il fatto che un cinquantennio di educazione antiautoritaria e liberale si concluda con un curatore (o tutore) misterioso che ti impartisce istruzioni per progressivamente distruggerti e poi ammazzarti, cui obbedisci senza fiatare, ci insegna molte cose. Le prima è che i ragazzi hanno bisogno di cura, altrimenti si cercano il curatore. Nessuno può vivere senza regole, soprattutto gli adolescenti. La personalità, per formarsi, ha bisogno di un contenitore, un sistema di regole. Senza di esse non avrà identità, si sentirà «nessuno», spazzatura sociale (come definisce le sue vittime l'iniziatore di Blue Whale) e diventerà vittima di chi voglia essere il suo carnefice. La seconda è che, oltre che di regole, gli adolescenti hanno bisogno anche di un'educazione alla violenza. Se nessuno gliela spiega, mostrandogliela in qualche modo, questa diventa un tabù, il cui fascino e potere (come insegnano antropologia e storia delle religioni) diventa invincibile. Blue Whale ha pochi mesi, ma in terapia da tempo si vedono crescere gli amanti del cutting, il tagliarsi, soprattutto braccia e gambe. Per il piacere di farsi male, di violare il proprio corpo, di fare un passo verso la distruzione. Ma anche per rompere una condizione di benessere anestetizzato dove, appunto, non incontrando né dolore né violenza, di cui non si può neppure parlare, non si prova spesso alcun piacere. Per riconoscerlo, dobbiamo fare anche l'esperienza del suo fratello negativo, il male.
È quello che i ragazzini hanno sempre saputo, pestandosi più o meno duramente appena potevano. E anche la ragazze non scherzavano, con giochi abbastanza crudeli raccontati in molti memoirs femminili, prima che tutto sprofondasse nell'attuale bullismo transgenere. L'educazione, vera, è iniziazione alla vita integrale: piacere e dolore, corpo e spirito, vita e morte.
Se togliamo il dolore, lo spirito e la morte, anche il piacere svanisce, e la vita diventa incomprensibile. E ci si uccide. Per fretta di godere e devozione al politically correct, abbiamo semplificato in po' troppo.Urge cambiare strada.
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