La nostra società crede di poter rinunciare alla cultura e alla istruzione come fossero orpelli. Semplici sfizi, non il cemento di qualunque ipotesi di comunità. Intrattenimento, non industria dell'intrattenimento. Questa miopia non è una novità dei decreti del governo Conte. È figlia di una lunga involuzione. Viene dopo l'aver negato una parte della nostra storia, il Fascismo, fingendo non avesse una cultura, e ce l'aveva; dopo aver lasciato campo libero al Partito comunista, antidemocratico e illiberale; dopo aver censurato con le buone (il silenzio) e con le cattive (il discredito) tutto il pensiero infedele alla linea di Botteghe Oscure; dopo aver declassato la cultura a strumento di propaganda, da alimentare con regali agli amici; dopo aver ridotto il maestro a un assistente sociale privo di autorità; dopo aver innalzato la più vacua delle ideologie, il politicamente corretto, a nuovo faro della società; dopo aver soffocato il dibattito con i fascistometri e la «superiorità antropologica»; dopo aver pensato che con la cultura non si mangia, e invece guarda quanta gente per strada; dopo aver alimentato il culto del diploma «pezzo di carta». Ecco, dopo tutto questo, ora abbiamo: un governo dove siedono ex marxisti ormai ridotti a tossicodipendenti del potere e giovani turchi che hanno sguazzato nello sfacelo al grido di «vaffanculo». Sono loro a (non) occuparsi del piano nazionale contro la pandemia, che bello.
Ma abbiamo anche le masse che, dopo essersi divertite con le scie chimiche, ora forse pensano di farsi giustizia da sole. Per certi artisti, oltre al danno, c'è la beffa: a negare che la cultura sia una attività fondamentale, è la sinistra che hanno «servito» con orgoglio.
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