È la notte tra Natale e Santo Stefano. Una famiglia come tante rientra in casa e si prepara a un viaggio previsto per il giorno dopo. Ma durante la notte accade qualcosa di davvero imprevisto: la secondogenita della famiglia, una bimba bionda e dolce di soli 6 anni, viene uccisa e nascosta. Viene simulato un rapimento. È la storia di JonBenet Ramsey, al centro di uno dei più grandi omicidi irrisolti della storia americana recente.
Chi era JonBenet
JonBenet nacque nel 1990 in Georgia. Quando aveva 9 mesi, la famiglia si trasferì a Boulder nel Colorado. La sua vita era apparentemente felice sotto i riflettori: la madre Patsy era un’ex reginetta di bellezza, che aveva avviato la figlia a quel mondo fatto di balletti e patriottismo. Pare però che la piccola fosse soggetta a un forte stress, tanto che la notte spesso bagnava il letto. Quello che le accadde travolse per sempre la sua famiglia: la madre, in particolare, dopo aver combattuto per anni per la verità, morì a causa di un tumore alle ovaie.
Il rapimento e l’omicidio
Il 25 dicembre 1996 la famiglia Ramsey rientrò a casa alle 22: JonBenet e il fratello maggiore Burke furono subito messi a letto. Alle 5.30 del giorno successivo Patsy si svegliò, trovando il letto di JonBenet bagnato ma vuoto. Sulle scale la donna trovò una lettera in cui si annunciava il rapimento della bimba e si chiedeva un riscatto.
La lettera di riscatto fu molto bizzarra. Esordiva con la frase: “Siamo un gruppo di persone che rappresenta una piccola fazione straniera”. Inoltre alternava minacce di morte, in particolare qualora i Ramsey avessero chiamato la polizia, a espressioni più miti come “la consegna sarà faticosa per cui le consiglio di essere riposato” rivolte al papà di JonBenet. Per ben tre pagine i rapitori avevano imperversato con citazioni da film come “Speed” e “Ransom”, chiedendo un’insolita cifra: 118mila dollari, esattamente quanto papà John aveva ricevuto come bonus aziendale natalizio.
Alle 13 del 26 dicembre le forze di polizia hanno chiesto a John Ramsey di accompagnarle in una perlustrazione della casa. Andarono anche in cantina. E lì, dove poco tempo prima si era rotta una finestra che non era ancora stata riparata, trovarono il corpicino di JonBenet. La bimba aveva un cuoricino disegnato con un pennarello rosso sul palmo di una mano. La bocca era chiusa dal nastro adesivo, ma il bavaglio era stato fatto post mortem. I polsi e il collo erano legati con una corda di nylon allentata e al collo c’era anche il manico rotto di un pennarello, utilizzato per una rudimentale garrota.
Il giorno dopo l’autopsia stabilì che la morte era avvenuta per asfissia da strangolamento e per la frattura del cranio: la ferita, ampia 20 centimetri, era compatibile con un colpo vibrato da una torcia elettrica. Furono trovate anche piccole lesioni pubee, ma potevano essere legate anche a una pulizia intima un po’ sbrigativa e rude, non necessariamente a una violenza sessuale. Le indagini vere e proprie partirono nel gennaio 1997. Ma la svolta più importante avvenne nel dicembre 2003, quando sulla biancheria di JonBenet fu isolato del Dna maschile a partire da alcune tracce di sangue. A chi apparteneva quel Dna?
I sospettati
Rolling Stone ha raccolto un excursus tra quelli che nel tempo sono stati i principali sospettati dell’omicidio di JonBenet. La prima di questi è Patsy Ramsey, la madre della bambina: secondo gli inquirenti, la donna avrebbe potuto causare la morte della piccola accidentalmente, proprio mentre era intenta a pulirla dopo che aveva bagnato il letto. L’opinione pubblica è apparsa spesso contro la donna, accusata a torto di aver spinto la figlia nel mondo dei concorsi di bellezza: a quanto è dato sapere, JonBenet si divertiva invece molto, per lei i concorsi erano un gioco. Patsy fu scagionata nel 2008, insieme agli altri membri della sua famiglia, incluso il figlio Burke, che all’epoca dell’omicidio aveva 9 anni.
La lente d’ingrandimento degli investigatori finì sulla famiglia di JonBenet per una serie di dettagli: la lettera per la richiesta di riscatto sembrava essere scritta con pennarelli trovati in casa. Inoltre l’autopsia stabilì che la bambina aveva mangiato dell’ananas, mentre i Ramsey hanno sempre negato di aver dato da mangiare alla bimba questo alimento quella sera: tuttavia proprio nella loro cucina furono trovati i resti di una ciotola con dell’ananas.
Anche John Ramsey finì al centro delle indagini, sia per la richiesta di riscatto che ammontava esattamente a un suo introito recente, sia perché aveva inquinato la scena del crimine. John aveva infatti preso subito il corpo della bambina, portandolo al piano di sopra e coprendolo con un lenzuolo. Ma come si comprese l’estraneità di Patsy e Burke, anche nel caso di John fu chiaro che quel gesto rientrava nell’istinto di un padre affettuoso. Tanto più che il Dna trovato non corrispondeva. Per i Ramsey è stato un percorso doppiamente doloroso: non solo hanno subito l’omicidio di un membro della famiglia, ma si sono ritrovati additati con l’accusa più infamante.
Decisamente più plausibile si è rivelata in un certo senso la pista della pedofilia, in fondo quella finestra rotta in cantina avrebbe potuto rendere più facile l’accesso a un estraneo. Tra i vari sospettati, il più credibile è stato a lungo John Mark Karr, ex insegnante arrestato in Thailandia dopo che negli Usa era già stato accusato di pedopornografia. Karr arrivò anche a confessare di aver ucciso JonBenet durante un gioco erotico andato storto: perizia calligrafica e confronto del Dna lo scagionarono però.
Le indagini infine hanno coinvolto anche l’ex governante dei Ramsey e un amico di famiglia che si travestiva da Babbo Natale per conto di esercizi commerciali. In entrambi i casi l’indagine si è rivelata essere un buco nell’acqua.
Il Dna
A maggio 2022, come riporta la Cnn, John Ramsey ha lanciato una petizione affinché il Dna sia analizzato da un’agenzia esterna alla polizia e privata. L’uomo, dopo aver presenziato a una convention sulle risoluzioni dei crimini, ha scoperto che le analisi del Dna attualmente hanno fatto passi da gigante e che quindi la speranza di giungere a una risoluzione del caso.
“Vivo in una piccola comunità - si è
giustificato papà John - e non ci sono né molte risorse di polizia né alcuna esperienza in omicidi. Non biasimo i poliziotti per questo. Ma rifiutano l'aiuto di coloro che sapevano davvero cosa stavano facendo”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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