Il ritorno del fattore M

Il governo non deve preoccuparsi per l'opposizione. Non esiste. Ma può e deve temere i due fattori che provocarono la caduta dell'ultimo governo di centro-destra prima di questo: il vincolo esterno e il fattore M

Il ritorno del fattore M
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Il governo non deve preoccuparsi per l'opposizione. Non esiste. Ma può e deve temere i due fattori che provocarono la caduta dell'ultimo governo di centro-destra prima di questo: il vincolo esterno e il fattore M. Il primo sono le regole non scritte della Ue, i «geni invisibili della città» che, se non ascoltati, ti detronizzano. Il secondo fattore non è «Mussolini» ma «magistratura». Nonostante non siamo più ai tempi della prima e della cosiddetta seconda Tangentopoli (per fortuna), le inchieste possono indebolire un governo, e farlo cadere, eccome. E i segnali in questi giorni non si sono fatti attendere: dall'inchiesta su Santanchè al rinvio a giudizio del sottosegretario Delmastro.

Nel primo caso, benché i motivi della critica all'operato della ministra non siano di natura giudiziaria ma, diciamo così, di political accountability, per cui le categorie di giustizialismo e di garantismo rivestono poco senso, lascia perplessi sia la tempistica dell'avviso di garanzia che il suo essere stato «secretato» per diversi mesi. I magistrati avranno avuto le loro ragioni, per carità, ma l'opinione pubblica ha diritto a nutrire i suoi dubbi. Ancora più curioso il caso del sottosegretario Delmastro, rinviato a giudizio dal gip nonostante la procura avesse chiesto l'archiviazione. Come interpretare questi fenomeni? Con uno sguardo breve e uno lungo.

Quello breve riguarda un evidente braccio di ferro tra una parte della magistratura e la riforma Nordio, che, dal nostro punto di vista, fosse un vino, sarebbe un rosé più che uno strutturato Negramaro: nel senso che incide molto superficialmente sui mali della giustizia in Italia. Si tratta comunque di un primo passo verso il garantismo e il liberalismo che, però, una parte della magistratura sembra non gradire, quasi come atto di lesa maestà: come se il governo e il parlamento non fossero legittimati a riformarla.

Con questo non vogliamo arguire che le inchieste siano a comando ma che il contesto è quello di un nuovo conflitto tra poteri dello Stato. Lo sguardo lungo è quello del vulnus del 1992-1993 mai rimarginatosi. Quando una parte della magistratura, supportata da alcune forze politiche, ha voluto esercitare una supplenza non solo politica ma anche etica. E il dramma di una classe politica che, nonostante tutto, non è mai riuscita a ricostruirsi davvero: prova ne siano i governi tecnici, una specialità della Seconda Repubblica, da Ciampi a Draghi.

Tutto per dire che, al fine di riformare la giustizia, occorre adottare un habitus garantista e liberale, ma è pure necessario che la classe politica selezioni in maniera più rigorosa i

propri membri e che quella al governo adotti una maggiore gravitas, degna della istituzione che rappresenta. Altrimenti non usciremo mai dall'eterno alternarsi tra primato democratico della politica e populismo giustizialista.

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