A volte la Storia è complice di strane coincidenze che sorprendono anche l'animo più cinico. Chi avrebbe mai immaginato che il giorno del trentesimo anniversario di Tangentopoli, Piercamillo Davigo, l'ex pm del pool di Milano, sarebbe stato rinviato a giudizio e sottoposto a processo? Pochi. Sicuramente Bettino Craxi e Francesco Cossiga, che davanti ai meccanismi perversi di Tangentopoli profetizzarono che un giorno «i giudici si sarebbero arrestati tra loro».
Di quei meccanismi Davigo è stato il vero teorico, l'artefice di una visione messianica della giustizia, che non ammetteva dubbi e si rapportava con fastidio ad ogni garanzia, secondo una filosofia che affida al magistrato, solo a lui, una missione salvifica della società, anche in contrapposizione alla politica, cioè alla rappresentanza del popolo, considerata una sorta di letamaio secondo lo schema che «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state trovate le prove». Insomma, la cultura del sospetto, dell'indizio che si trasforma in prova, dell'imputato che è colpevole, appunto, solo perché fa parte della categoria dei politici o giù di lì. Davigo è stato una sorta di Maximilien Robespierre redivivo, che dopo poco più di due secoli dall'originale, ha indossato la toga per dare vita ad una nuova Rivoluzione, falsa o vera poco importa, che però non aveva nulla a che vedere, questo è il punto, con la giustizia, con il diritto e, a ben vedere, neppure con la democrazia.
E la ragione è semplice: quando mischi la giustizia con la rivoluzione, finisci ai tribunali del popolo, ai regimi totalitari. Motivo per cui alla fine l'epilogo del novello Robespierre era scritto, perché anche una democrazia malata, pavida e minata da trent'anni di populismi di ogni colore ha i suoi anticorpi per sopravvivere. E il primo è il giudizio di un'opinione pubblica che per qualche anno, magari anche qualche decennio, può essere incantata dalla retorica di Tangentopoli, complice anche una certa stampa sempre pronta ad inginocchiarsi di fronte ad ogni nuovo regime, ma poi si guarda intorno e si accorge che non è cambiato granché. O peggio, scopre che neppure più dei giudici si può fidare. Così ciò che avvenne al vecchio Robespierre è capitato anche al nuovo: Davigo, più precisamente, il giustizialismo in toga, ha perso il consenso popolare (il sì della Consulta ai referendum sulla giustizia è un'altra coincidenza da non sottovalutare) e rischia di essere crocifisso per un reato, sembra la legge del contrappasso, che non è mai stato perseguito (è il primo giudice che vi incappa) ma che è stato lo strumento usato per imbastire quei processi mediatici, di piazza, che sono stati l'essenza di Tangentopoli.
Il Re è nudo e la nemesi storica si consuma. Solo che nelle democrazie, quelle vere, non esistono né ghigliottine, né plotoni d'esecuzione e neppure si getta la chiave della cella per far confessare un imputato.
Ci si ispira per impostare un processo giusto, per garantire i diritti di ogni imputato a Cesare Beccaria, al Dei delitti e delle pene, che fu pubblicato esattamente trent'anni prima che il povero Maximilien salisse sul patibolo. Ecco perché mai come ora bisogna essere «garantisti» innazitutto, e soprattutto, con l'ex magistrato Piercamillo Davigo nel ruolo di imputato.
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