Sarà un campanello d'allarme, oppure un avviso severo per il prossimo futuro, ma sicuramente il centrodestra commetterebbe un grave errore a sottovalutarlo. Per le elezioni politiche lo schieramento è ancora vincente (almeno nei sondaggi), ma l'elettorato ha dimostrato di cambiare umore repentinamente. Soprattutto dopo il Covid, il populismo non è più in voga nel mondo, e visto che l'Italia è interconnessa con il resto del globo, lo stesso fenomeno si registra anche da noi.
Ora diciamo subito che la sinistra per i risultati di ieri non è che possa gioire più di tanto: la bassa affluenza (un record) dimostra che buona parte dell'elettorato è rimasta alla finestra, manca all'appello un 20% di cittadini rispetto alla media delle Politiche, che potrebbe cambiare l'esito di ogni elezione; chi non si è sentito più rappresentato dal centrodestra non ha scelto l'altro polo, che in fondo non è cambiato per nulla, né nella proposta, né nella fisionomia; il Pd, nei fatti, ha solo ripreso quell'elettorato che gli apparteneva, che aveva seguito le sirene grilline e che, dopo la crisi e l'esplosione dei 5stelle, è tornato a casa. Un successo senza meriti.
Il centrodestra, invece, ha perso per demeriti. Ha quasi dato l'impressione per usare un paradosso - che gli piaccia perdere facile. Ha messo in campo (tardi) una classe dirigente nella maggior parte dei casi modesta. I due limiti, messi insieme, si sono rivelati letali. Si è preferito a Roma un brav'uomo come Michetti ad un personaggio di statura nazionale come Guido Bertolaso. Una scelta che dimostra come nella coalizione ci sia un ritardo concettuale nel comprendere la fase politica post-Covid: se prima dell'epidemia una leadership espressione delle ali più estreme e populiste dello schieramento aveva la possibilità di vincere, ora no. Se oggi il pragmatico, concreto, moderato Draghi è il personaggio più popolare nel Paese, nella Capitale non puoi presentare Michetti.
Questo limite rischia di riproporsi anche alle elezioni politiche se Salvini e Meloni insisteranno nella competizione interna che punta a strappare un voto in più dell'alleato per conquistare la premiership. Un riflesso più da legge elettorale proporzionale che non maggioritaria: in un sistema bipolare devi preoccuparti più della vittoria della coalizione che non del partito, e non per nulla devi candidare un nome che abbia una maggiore capacità di rappresentanza, che attiri elettori di confine con l'altro polo. Quindi, un candidato moderato di frontiera, come lo furono in passato Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Se, invece, persisti nella convinzione che il Paese si esaurisca tutto nel centrodestra, rischi la «sindrome Le Pen»: tanti voti, ma non abbastanza per governare. Infatti, gli unici vincenti in queste elezioni sono state - in Calabria e a Trieste - due figure moderate, espressione diretta di Forza Italia.
p.s. Una riflessione indispensabile, specie in un Paese come il nostro dove il centrodestra gioca sempre con l'handicap: c'è una sorta di giustizia a tempo, precisa come un orologio svizzero, sia per penalizzare il centrodestra, sia per favorire la sinistra.
Il caso Morisi e le polemiche sul fascismo sono arrivati puntuali prima del voto; gli avvisi di garanzia ad Arcuri, già plenipotenziario del governo Conte, e l'archiviazione dell'inchiesta per le morti Covid al Pio Albergo Trivulzio, per le quali fu crocifisso il governatore leghista Fontana, solo all'indomani. Diceva Andreotti: a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina.
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