Si legge che, con la sentenza della Cassazione n.10124 pubblicata in data 11.4.2019, le scuole paritarie sono condannate a pagare l'Imu. Incapaci di smarcarsi dai due eccessi: il privilegio, rimproverato da alcuni e la gentile concessione ad esistere, invocata da altri. Si cerca di fare chiarezza.
L'ideologia in entrambi i casi è la medesima: la "sopravvivenza delle scuole paritarie". Eppure da anni è stato ampiamente chiarito che sono i genitori ad avere il diritto (ai sensi dell'art. 30 della Costituzione italiana e dell’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) a scegliere dove e come educare i figli, avendone la responsabilità educativa. Tale libertà, per esprimersi, necessita come è ovvio di un pluralismo educativo nell’ambito della Scuola Pubblica riconosciuta nel Servizio Nazionale di Istruzione, composta da buone scuole pubbliche paritarie e buone scuole pubbliche statali.
Si risponda alla "madre di tutte le domande": perchè i genitori italiani (l'Italia è la più grave eccezione in Europa), dopo aver pagato le tasse e vedendosi riconosciuto dalla carta costituente e dalla legge il diritto alla libertà di scelta educativa, di fatto se scelgono la scuola statale apparentemente non pagano nulla (in realtà sappiamo già che costa 10mila euro in tasse dei cittadini), mentre se scelgono la scuola paritaria devono pagare due volte, con le tasse prima e la retta poi? La legge ormai ha riconosciuto questo diritto dal 1948 innumerevoli volte, le ragioni economiche hanno già dimostrato che garantire la libertà di scelta educativa, attraverso la determinazione del costo standard di sostenibilità, è un'operazione a costo zero che innalza il livello della qualità scolastica facendoci risalire dagli ultimi posti Ocse-Pisa. Si liberano dalla morsa dello spreco 7 miliardi di euro all'anno, che non solo impediscono la libertà di scelta educativa, ma – peggio - rendono il nostro un sistema scolastico classista, regionalista e discriminatorio. Pertanto c’è poco da cercare i consensi: ogni giurista, economista, politico, cittadino di buon senso che ha a cuore la cosa pubblica sa benissimo che l’unica risposta alla domanda di sempre "chi paga?" è “nessuno: si applichino i costi standard di sostenibilità”. Il resto sono inutili disquisizioni che alimentano l’ingiustizia e legittimano l’inerzia di molti.
Ciò premesso la sentenza della Cassazione n. 10124/2019 quali novità introduce?
I veri studiosi sanno molto bene che la scienza piegata a rafforzare le proprie idee è un falso. La ricerca onesta è sempre sine glossa. Si presenta quindi il parere di un noto giurista esperto di scuola (responsabile ufficio legale Fism Nazionale), l’avvocato Stefano Giordano, che ci conferma nell’unica lettura di diritto possibile. "La sentenza della Cassazione n.10124/2019 è stata pronunciata, dopo due gradi di giudizio favorevoli alla tesi della non debenza, con riferimento ad un immobile di una congregazione religiosa che si occupa di attività sanitaria ed in riferimento all'imposizione ICI riferita all'anno 2003. Quindi la scuola e tutte le letture che ne sono seguite erano di carattere “incidentale” cioè non rilevanti, ancor più per gli schieramenti pro o contro le paritarie.
Il principio di diritto che fonda la pronuncia è che nei precedenti gradi di giudizio non si era verificato adeguatamente se i corrispettivi raccolti dalla casa di cura in relazione alle prestazioni sanitarie, seppure convenzionate, fossero inferiori ai costi di produzione. Secondo il giudizio della Corte di Cassazione il corrispettivo invece avrebbe remunerato i fattori della produzione.
Il riferimento incidentale - irrilevante nel caso specifico come riconosciuto dalla stessa Corte atteso l'antecedenza del caso rispetto alla norma citata - al presunto difetto di delega del DM 200/2012 rispetto all'art. 91 bis del DL 1/2012 è ampiamente discutibile atteso il chiaro dettato della norma: Con successivo decreto del Ministro dell'economia e delle finanze da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 17 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono stabilite le modalità e le procedure relative alla predetta dichiarazione, gli elementi rilevanti ai fini dell'individuazione del rapporto proporzionale, nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui alla lettera i) del comma 1 dell' articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 , come svolte con modalità non commerciali".
In questi giorni molti – gestori e genitori attenti – si sono allarmati per il fatto che la sentenza in questione avrebbe annullato il decreto Imu in quanto illegittimo; di conseguenza le scuole paritarie a breve sarebbero state destinate a morire sotto la scure dell’Imu. Nel ribadire che – in ogni caso - il reale diritto da garantire è la libertà di scelta educativa dei genitori non quello delle scuole paritarie ad esistere in sè e per se stesse, si arriva al cuore della questione: "Le scuole paritarie devono pagare si o no l’Imu?". Siamo tutti consapevoli che queste non chiedono un privilegio e pagare l'Imu comporterebbe la loro chiusura immediata, con la conseguenza di privare la Nazione del pluralismo educativo. Questo necessita di scuole con soggetti gestori differenti sotto lo sguardo garante dello Stato e non può essere ridotto al pluralismo fra scuole gestite dal medesimo soggetto controllore, cioè lo Stato stesso. Si tradisce la ragione e il cittadino.
Premesso che la sentenza 10124/2019 non ha in alcun modo considerato la natura delle funzioni di interesse generale, quale è appunto quella pubblica d’istruzione, che il diritto unionale giudica come prive di rilevanza economica e quindi prive di impatto sulla normativa in materia di aiuti di Stato, rimarrà dunque la necessità, atteso che la Corte di Cassazione non è certo Giudice delle leggi, di verificare caso per caso la sussistenza della modalità non commerciale esercitata nel concreto.
Pertanto l’ordinanza nulla toglie e nulla aggiunge all’assunto che è stato raggiunto con la sentenza CGUE, Grande Sezione, 6 novembre 2018, cause riunite da C-622/16P a C-624/16P in materia di aiuti di Stato per le scuole paritarie: “l’esenzione IMU non è un aiuto di Stato”.
La Corte di Giustizia UE che ribadì la necessità di appurare se esista effettivamente un meccanismo che consenta di recuperare, anche solo parzialmente, l’ICI dovuta dai soggetti che hanno beneficiato di una esenzione illegittima ha, nel contempo, escluso il regime IMU dalla categoria degli aiuti di Stato. Il crisma di legittimità conferito dalla Corte UE alla normativa IMU supera tutte le forzature interpretative del dato normativo nazionale, non di rado sostenute dai Comuni per esigenze erariali di cassa. Si ricorda come abbiamo già avuto modo di argomentare che la sentenza in commento non si esaurisce nella reprimenda fatta dai giudici europei al Tribunale UE. Essa mette in luce, nel suo complesso percorso motivazionale, anche valutazioni di diritto favorevoli agli enti non commerciali come l’esclusione del regime agevolativo IMU dalla categoria degli “aiuti di Stato” che, pertanto, è compatibile con l’ordinamento dell’Unione. Questa condivisibilissima soluzione, sostenuta da impeccabile argomentazione, fa leva sulla decisiva constatazione che la legge IMU, introdotta nel 2012, non estende l’esenzione alle “imprese”, intendendosi per tali “qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento” (punto 103 della sentenza).
Ricordiamo che il regolamento 200/2012 stabilisce che le scuole pubbliche statali non sono tenute al pagamento dell’IMU; le scuole pubbliche paritarie se erogano il servizio pubblico a titolo gratuito o con un corrispettivo simbolico e tale da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio non devono versare l’IMU. All’art. 4 comma 3, a,b,c, si individuano le caratteristiche (conditio sine qua non) affinché le scuole paritarie non paghino l’IMU: 1) devono essere scuole paritarie; 2) non devono essere discriminatorie nell’accettazione degli alunni; 3) hanno l’obbligo di accogliere gli alunni portatori di handicap; 4) devono applicare la contrattazione collettiva al personale docente e non docente; 5) devono garantire l’adeguatezza delle strutture agli standard previsti; 6) devono dare pubblicità del loro bilancio. Da notare che sono i requisiti della legge 62/00 sulla parità. La Corte di Cassazione richiama incidentalmente ed inutilmente il Decreto 200 ma ne sconosce la profonda radice giuridica eurounionale: “le attività didattiche devono essere svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto conto dell’assenza di relazione con lo stesso".
Il richiamo - in premessa di questo Decreto a titolo giustificativo - alla necessità di adeguarsi ai “parametri di conformità a quelli previsti dal diritto dell’Unione Europea”, oltretutto, non prende in considerazione un particolare molto importante: le scuole pubbliche paritarie, nei diversi Paesi europei godono, anche se in maniera diversificata da un Paese all’altro, di un finanziamento pubblico e, quindi, si trovano nella oggettiva fortunata situazione di non praticare alcuna retta, oppure di applicare una retta puramente simbolica ad integrazione del contributo statale. Difatti nonostante abbia una struttura giuridica perfetta che anticipa l’Europa, in essa l’Italia risulta ad oggi - nella garanzia dell’esercizio del diritto - una grave eccezione.
Semmai lo sforzo del Governo dovrebbe essere quello di far comprendere correttamente all’Unione il quadro complesso dell’istruzione non profit in Italia. Il Nostro paese, infatti, si è trovato a dover gestire nell’anomalo Sistema Nazionale di Istruzione italiano (che non garantisce la libertà di scelta educativa dei genitori sottoposti ad una grave discriminazione economica) il parametro europeo, il “requisito” alla lett. c), comma 3, dell’art. 4 del Regolamento che stabilisce che lo svolgimento dell’attività deve essere effettuato “a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso”. Affermazione che - e la cosa sorprende - appare in netto contrasto con le indicazioni della Risoluzione del Parlamento Europeo (1984), con la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (1996), con la Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Parlamento europeo (2012). Occorre la chiarezza: le indicazioni del Parlamento Europeo sono pure e teoriche idealità letterarie o indicano, invece, una base da cui partire per “essere in Europa”? La disparità e anomalia del caso italiano dovrebbero sollevare più di un interrogativo. Si afferma poi di attività che dovrebbero essere effettuate “a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico”.
Simbolico rispetto a cosa? In tal senso a norma dell’art. 1, comma 1, della legge 10 marzo 2000, n. 62, il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. Quanto effettivamente costa il servizio alle scuole pubbliche – statali e paritarie – è una bella domanda. Di conseguenza il Decreto IMU per gli enti non commerciali schiera un parametro inedito, quello del costo medio per studente. Si legge sul sito del Ministero “Se il corrispettivo medio (CM) è inferiore o uguale al costo medio per studente (CMS) la scuola paritaria è esente dall’IMU. Si evidenzia che si definisce il Costo medio studente che è ben altro parametro rispetto al costo standard di sostenibilità (come si legge su Il Sole 24 Ore il 15.02.2019), che si auspica venga introdotto quale unico anello mancante ad un sistema lesivo dei diritti costituzionali dei Genitori.
Si conferma pertanto che il crisma di legittimità conferito dalla Corte UE alla normativa IMU dovrebbe avrebbe già dovuto eliminare tutte le forzature interpretative del dato normativo nazionale, non di rado sostenute dai Comuni per esigenze erariali di cassa.
Opinando diversamente si finirebbe per raggiungere un risultato censurabile perché esattamente all’opposto e, dunque, contrario al dictum dei giudici europei che, quale fonte di legge, funge da guida e “bussola” del percorso interpretativo.
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