Se un disabile corre più veloce di un campione

Sport e normodotati. Sport e disabili. Tema delicato. Insidioso. Scivoloso. Sport e orribili definizioni coniate per indicare chi ha e chi non ha. Chi per ora e forse per sempre potrà dirsi baciato dalla natura e chi non lo è mai stato o non lo è più. Un muro fatto di parole a dividere due mondi che invece sono uno. Mondi che per ricordarcelo, a volte, disgraziatamente s'incrociano cambiando l'esistenza nostra e dei nostri cari. Mondi che nello sport trovano al tempo stesso il loro Dio e il loro Diavolo. Perché lo sport unisce. Ma lo sport divide. Più di tutti.

Olimpiadi e Paralimpiadi. Il muro e le divisioni stanno anche nei dettagli. In una vocale cambiata che ti domandi ancora il senso e tutte le spiegazioni alla fine non reggono. Quasi si volesse rimarcare la diversità fra i due Giochi. L'impresa dell'altra notte firmata dall'algerino Abdellatif Baka è (...)

(...) meravigliosa per questo. Perché il ragazzo, abbattendo almeno nell'immaginario il muro involontariamente eretto dallo sport fra i due mondi, è riuscito a dimostrare una volta di più che i due mondi sono uno. Ma non per il crono che tanto clamore ha suscitato.

Baka ha infatti vinto i 1500 metri classe T13. Categoria ipovedenti. 3'48"29 il suo tempo. Inferiore a quello con cui lo statunitense Matthew Centrowitz, un mese fa sempre a Rio, aveva conquistato l'oro ai Giochi. Disabile e normodotato. Diversamente abile e abile. Paralimpiade e Olimpiade. E però dietro al muro che si sgretola, come una diga che crolla, tonnellate di facile moralismo. Perché la notizia ha fatto il giro del mondo. Perché l'altra sera erano stati addirittura in quattro a concludere sotto il tempo del vincitore dei Giochi di agosto. Perché 3'50"00 era stato il suo crono. Perché poveretto, vien da pensare adesso, ma quanto piano era andato? Ma il moralismo impedisce tutto questo: vietato esclamare con tenerezza «poveretto». Vietato pensare alla sua gara lenta. Il moralismo dietro al muro impone di pensare solo a quanto veloce siano andati i paralimpici. E così facendo il moralismo tiene divisi i due mondi che invece sono uno.

Poco importa infatti che i 1.500 di agosto fossero stati terribilmente tattici. Poco importa che per puntare ai record, spesso, su queste distanze, si faccia uso di «lepri», di atleti cioè che tirano come matti per un paio di giri e poi mollano. Poco importa che nelle batterie ci fosse chi aveva segnato 3'38"31 o in semifinale 3'39"42 e che nessuno dei finalisti paralimpici avrebbe superato le batterie. Poco importa che tutti, in primis lo stesso Centrowitz sul podio durante l'inno, sapessero che gli ultimi 1.500 così lenti ai Giochi si erano corsi nel 1932 a Los Angeles.

No. Ieri contava solo esaltare l'impresa. E così facendo, inevitabilmente, tenere divisi i due mondi. Che invece, e questo è il nocciolo di tutto, andrebbero avvicinati. Sempre di più. Fin dove è possibile. Là dov'è possibile. I 1.500 categoria ipovedenti, ovvero con atleti affetti da una riduzione del campo visivo, hanno dimostrato che talvolta, lì, da loro, è possibile.

Ma non è di questa impresa che avevano bisogno le paralimpiadi e questi meravigliosi atleti. Cominciamo invece a eliminare certo moralismo sportivo e, tanto che ci siamo, a ristabilire la stessa vocale, da paralimpiadi a paraolimpiadi, come s'iniziò spontaneamente a chiamarle dopo la prima edizione, nel 1960, a Roma. E in questi giorni in cui si fa di tutto per allontanare Roma 2024 dal nostro futuro, forse varrebbe la pena ricordare che gesto di civiltà venne compiuto dal e nel nostro Paese. Cominciamo così.

È da questo che due mondi iniziano a diventare uno. Non da un atleta americano che ad agosto, sul podio, si è guardato l'oro appeso al collo e ha pensato: «Mamma mia come sono andato piano...».

Benny Casadei Lucchi

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