"Se non ci fosse il cioccolato scapperei anche dal Paradiso"

Intervista a Ernst Knam, il pasticciere vip: "Volevo fare l’ornitologo ma non ho studiato il latino. Mi sento italiano, però nelle partite di calcio tifo Germania"

"Se non ci fosse il cioccolato scapperei anche dal Paradiso"

Nell’ufficio di Ernst Knam c’è profumo di cioccolato. Al di là del corridoio c’è il laboratorio della sua pasticceria: lì, da tre grandi rubinetti, sgorgano getti di cioccolato fondente, al latte e bianco. I suoi «ragazzi» preparano cioccolatini, in un angolo ci sono delle acciughe a essiccare, per un esperimento. Del resto Knam è il re del cioccolato, come il titolo del programma tv che l’ha reso famoso (è diventato anche giudice di Bake off, con Benedetta Parodi). Oltre al negozio di pasticceria a Milano, oltre alla tv, Knam scrive libri di cucina. L’ultimo (di diciotto) è Dolce dentro (Mondadori), forse sottintendendo che l’apparenza inganna. Racconta le sue ricette: «Per me i segreti non esistono» dice. È nato a Tettnang, «vicino al lago di Costanza», 53 anni fa. «Cinque fratelli in tutto, quattro maschi e una femmina».

La sua mamma che cosa cucinava?

«Di tutto. Mio nonno aveva un albergo; lei ha lasciato perché mio padre era fioraio, quindi ha fatto la fiorista».

Era una brava cuoca?

«Era tutto molto buono. C’erano delle regole: il venerdì niente carne, il sabato la zuppa, al ristorante solo la domenica. Mia mamma cucinava di tutto: arrosti, pesce, pasta, anche per i dieci collaboratori di papà».

Qualche dolce in particolare?

«A Natale, la biscotteria con le spezie. Iniziava a farla a novembre, ci arrivava il profumo in camera: così scendevamo in cucina a leccare le pentole. Questo è stato il primo approccio».

Ma da piccolo sognava di fare il pasticciere?

«Nooo. L’ornitologo».

Poi?

«Ho studiato francese e non latino, così ho rinunciato. Poi ho frequentato la scuola di banca e commercio per due anni, perché i numeri mi sono sempre piaciuti».

E la pasticceria come è arrivata?

«A 17 anni ho cercato un negozio per fare l’apprendistato, vicino a Tettnang. Ci andavo in bici, al mattino. Mi piaceva. Poi ci sono stati i due anni di militare, in cui ho fatto la cucina».

Poi è andato all’estero?

«Prima sono andato a Lindau, a fare il pasticciere in un cinque stelle. Poi in Scozia, al Dorchester Hotel di Londra, a Ginevra, a Tokyo, a Hong-Kong e a Singapore. Poi sono venuto in Italia, da Gualtiero Marchesi».

Come mai da Marchesi?

«Ho scritto a Cipriani a Venezia e non mi ha risposto, ho scritto all’Hotel Bauer, sempre a Venezia, e non mi hanno risposto, ho scritto a Gualtiero Marchesi e mi ha risposto».

Come si è trovato?

«Sono stato tre anni con lui, bene».

Lo chiama «il Maestro».

«Tutti lo chiamano il Maestro, o il Divino. Lui però non è pasticciere, mi ha insegnato tutt’altro: la filosofia, quella che sta dietro. Con me c’erano Cracco, Oldani, Berton, Leemann, Lopriore, Vogler... Una bella brigata».

Che cos’è la filosofia?

«Il pensiero intorno a un piatto».

Quando è andato via da Marchesi?

«Nel ’92, lui è andato a Erbusco. A Pasqua sono venticinque anni che ho aperto il mio negozio».

Perché un negozio?

«Perché a un certo punto uno si fa una domanda: se rimanere sotto padrone, o diventare il padrone. Camminando per Milano, 25 anni fa, vedevo solo pasticcerie classiche. Io ho portato un po’ di innovazione. Non faccio mignon, non faccio colazioni: faccio una pasticceria tutta mia, non italiana».

Le pasticcerie milanesi non erano un granché?

«Non dico questo. Erano classiche. Io ho imparato il classico, ma penso che la pasticceria, come la cucina, vada messa a punto, in termini di modernità. In questo erano molto ferme. Ma quelle famose, che facevano il classico, lo facevano ottimo».

Come mai proprio Milano?

«Perché non c’era concorrenza».

È vero che ha rifiutato per sette volte, prima di andare in tv?

«Undici. Ho rifiutato per undici mesi, poi al dodicesimo un mio ex collaboratore mi ha chiesto in ginocchio di provare. Così è partito tutto».

Il negozio si è riempito.

«Lavoravamo già tanto. Certo la televisione dà una visibilità ben diversa, ma anche una clientela diversa: molti vogliono solo un cioccolatino e la foto... Facciamo tanti scontrini piccoli».

I suoi libri non sono dedicati solo ai dolci ma anche alle torte salate, ai panini, ai fritti.

«Per me la cucina è a 360 gradi, dal dolce al salato e dal salato al dolce. Chi diventa cuoco ha difficoltà a diventare poi pasticciere; chi comincia da pasticciere può diventare un buon cuoco. Molti chef stellati hanno cominciato così, perché fai più attenzione. Al contrario vai fuori di testa».

Un suo libro si intitola "Che Paradiso è senza cioccolato?" Perché?

«Se va in Paradiso e non c’è il cioccolato, che cosa fa? Io torno indietro. Ci deve essere».

Davvero si abbina con tutto?

«Si abbina con tutto, se uno conosce le materie prime. Il cacao nasce amaro. La coda alla vaccinara a Roma è fatta col cacao, in montagna il selvatico è cucinato con il cacao».

Come si fa?

«Va usato con rigore. La carne non deve avere sapore di cacao; il cacao aiuta a togliere gli aromi selvatici e a creare una salsa più rotonda e dolce».

Gli abbinamenti più azzardati?

«Sono azzardati per chi non conosce le materie prime, per me no. Per esempio, se dico che faccio una torta al cioccolato con aglio nero fermentato, la gente dice: “È matto?”. Si ferma davanti alla parola aglio. Ma l’aglio nero fermentato è tutta un’altra cosa. Oppure il cioccolato che ho fatto con colatura di alici: volevo che si sentisse il mare».

L’ha abbinato anche all’astice.

«Sì, astice al cioccolato bianco e vaniglia. In piccola quantità, non si sente».

Insomma non ci sono ingredienti particolari?

«Per me no, perché li conosco. Per il 99 per cento delle persone il pepe di Timut è un prodotto fuori dalla norma, per me è normale: è agrumato, buonissimo. Il gorgonzola sta benissimo col cioccolato. Quando i giovani vengono da me e mi dicono: “Voglio imparare la tecnica”, io rispondo: “Prima devi conoscere le materie prime”».

Quanto conta la mano per un pasticciere?

«Conta tanto. Scrivo una ricetta: dieci pasticcieri, dieci risultati diversi».

La mano uno ce l’ha, o può farsela?

«È come nel calcio: o ce l’hai, o non ce l’hai. Ti puoi allenare, ma un po’ di talento lo devi avere».

In percentuale, quanto contano la tecnica, la mano, il talento, l’impegno, la creatività?

«Contano tutte centodieci. Conosco pasticcieri che tecnicamente sono dei numeri uno, ma i dolci fanno schifo».

Serve anche il sentimento?

«Il sentimento, la passione, il pensiero. Quando monto la panna devo pensare a quello che succede».

Tutti possono cucinare dolci?

«Tutti. Senza esclusione».

Lo strumento più importante per un pasticciere?

«La mano».

Il gesto?

«Leccare».

Di che cosa non può fare a meno?

«Di mia moglie Alessandra».

Anche in pasticceria?

«E certo, lavora con me».

È esperto di dolci, di fritti: è uno da cibi proibiti?

«Perché proibiti? Se uno frigge a regola d’arte, con olio e temperatura giusti, non ci sono problemi. Il cioccolato fa bene, fa male se uno ne mangia un chilo al giorno. A me piace fondente».

Assaggia tutto?

«Sì».

Quanti dolci mangia al giorno?

«Non li conto, assaggio».

E poi?

«Se i miei non vanno bene, vuole dire che i ragazzi hanno fatto qualcosa di sbagliato. E allora li faccio riflettere».

E se è un dolce di altri?

«Normalmente non mangio dolci fuori».

Da zero a dieci quanto è goloso?

«Undici».

In famiglia è il più goloso?

«Sì. Forse col cioccolato la piccola Anna mi batte. Ha quattro anni».

Il cioccolato è?

«Tutto. L’oro nero. Il cibo degli dèi».

Perché è così speciale?

«È l’unica materia prima in cucina utilizzabile a 360 gradi: caldo, freddo, liquido, duro, in polvere, denso, semidenso, nelle creme, dappertutto».

Quale cacao usa?

«Mi piace molto il cacao peruviano».

Altri ingredienti preferiti?

«Il mango e tutte le spezie».

È preciso?

«Direi di sì».

Severo?

«No, esigente».

Sicuro che sia «dolce dentro»?

«Dolcissimo».

Il suo lavoro è faticoso?

«No. A me non sembra».

A che ora si alza?

«Alle cinque-cinque e mezza, vado a dormire verso l’una-una e mezza».

Che cosa è più difficile nel suo mestiere?

«Non c’è niente di difficile, forse non ascoltare».

Il dolce più difficile che ha fatto?

«Io non vedo i dolci come una difficoltà. Uno, per esempio, è il Bacio di Rodin, la statua che è in negozio ora».

Il suo preferito?

«Tutti quelli buoni».

Uno?

«La Foresta nera».

Quello che le piace meno?

«Quelli non fatti bene. Se fatti bene, mi piacciono tutti. Sono goloso».

Uno che sogna di fare?

«Un dolce per Papa Francesco. Una mousse al cioccolato con uno strato di dulce de leche, mango, frutto della passione, ricoperto di panna montata. È argentino, quindi il dulce de leche non può mancare».

Quali caratteristiche deve avere un dolce per essere buono?

«Innanzitutto deve essere fatto con materie prime eccelse. Deve essere bellissimo, avere un buon profumo e in bocca deve essere una esplosione di gusto, però armonica: non deve essere troppo dolce, altrimenti è stucchevole, e bisogna sentire ogni ingrediente».

Che cos’è lo «stile Knam»?

«L’essenzialità. Poco, ma buono. Togliere, non aggiungere».

Come l’ha imparato?

«Girando il mondo, dai grandi maestri. Marchesi mi ha molto guidato: lui è molto essenziale».

Marchesi ha detto di lei che a volte fa dei capolavori, che è un po’ matto come gli artisti, ma riconoscente.

«Sicuramente è una frase che può essere applicata a me. Tre anni insieme è un tempo importante per capire una persona».

Quando dice che è riconoscente, intende che riconosce i suoi meriti?

«Ho incontrato tanti cuochi famosi, con alcuni ho anche lavorato, ma Marchesi è su un altro pianeta. È “oltre”. All’estero è osannato».

In Italia non è riconosciuto?

«Hanno cercato di distruggerlo, ma è lui che ha portato la cucina italiana al livello a cui è oggi. E per me la cucina italiana è la numero uno al mondo».

Si sente milanese ormai?

«Dopo avere passato più del 50 per cento della mia vita a Milano e in Liguria... Penso in italiano e quando vado in Germania dopo due giorni dico “voglio tornare a casa”; ma se giocano Italia e Germania tifo Germania».

Il dolce migliore che abbia mangiato fuori casa?

«Da Ducasse. Un soufflé di frutto della passione con sorbetto di cioccolato fondente. Però al ristorante di solito non mangio il dolce».

Perché questo boom di corsi, talent e programmi tv di cucina?

«Perché è di moda. Prima o poi finirà. Ormai lo chef-cuoco è diventato una superstar, mi sembra un po’ esagerato. Cuochi e pasticcieri trasformano le materie prime in qualcosa di buono, e deve rimanere così».

Ma lei capisce subito se uno è bravo a cucinare?

«Ovviamente si vede come uno manovra, o taglia. Però esistono degli showman bravissimi, e poi magari il piatto è pessimo. Allora prima si guarda, poi si assaggia, e poi si può dire».

Perché quasi tutti amano il dolce?

«Perché nel profondo siamo tutti golosi. Lo zucchero fa bene: ti entra nel sangue, e cambi faccia».

Se al ristorante le portano un dolce non buono si innervosisce?

«Il dolce è il piatto più importante del ristorante. È l’ultimo, lo ricordi più di tutti gli altri: può rovinare una cena buona, se è cattivo, così come può salvarne una, se è buono».

Un dolce bello è anche buono?

«Deve essere bellissimo e buonissimo, sempre».

I dolci creano dipendenza?

«Ogni cosa, se buona, crea dipendenza. Conosco dei choc-aholic, drogati di cioccolato».

Se non esistessero i golosi?

«Sarei andato in Paradiso a vendere cioccolato a Dio».

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