L'accordo tra governo e sindacati sul progetto di riforma elaborato dal ministro Renato Brunetta, volto a rinnovare una burocrazia quanto mai inefficiente, si propone d'intervenire in uno dei settori cruciali. È evidente che non potremo mai uscire da questa drammatica situazione senza una modernizzazione che innalzi la qualità dei servizi.
Nel noto indice «Doing business», elaborato da un paio di economisti della Banca mondiale per valutare in quali paesi sia più facile intraprendere, l'Italia si trova sotto il cinquantesimo posto, superata anche da Kosovo, Marocco e Kenya. E una parte rilevante della responsabilità si deve alla bassa qualità del nostro settore pubblico, oltre che da regolamentazione barocca e invadente. Che la burocrazia italiana sia un fardello pesantissimo è risaputo: urge allora fare qualcosa per modificare la situazione.
L'esecutivo intende agire soprattutto attraverso l'immissione nello Stato di figure competenti, nei settori che ne hanno più bisogno. Una riqualificazione della funzione pubblica dovrà poi venire da maggiori investimenti nella formazione. Presentando l'iniziativa il premier Mario Draghi ha sottolineato come sotto la voce «formazione» oggi si spendano soltanto 48 euro all'anno: una cifra davvero modesta.
Nell'accordo sottoscritto tra l'esecutivo e le parti sociali naturalmente si parla pure di informatizzazione, soprattutto nella prospettiva di quello «smart working» che in passato, nel settore pubblico, ha pure consentito innumerevoli abusi: in ragione del fatto che nello Stato manca quel sistema di incentivi che nel privato genera, in modo assai spontaneo, un'autoregolazione basata su premi e punizioni.
È chiaro che, come ha rilevato alcune settimane fa Francesco Verbaro, «usare la PA per assumere i giovani disoccupati pregiudicherebbe il buon funzionamento dell'amministrazione». Su questo si deve essere vigili, dato veniamo da decenni segnati da queste pratiche. Oltre a ciò, sarebbe cruciale impostare un nuovo rapporto tra i territori e gli uffici pubblici, dato che Milano non è Sondrio, Napoli non è Isernia. Infine, varrebbe la pena di prendere sul serio le parole usate da Draghi nel presentare alla stampa questo progetto, quando ha parlato della necessità di una nuova «coesione sociale». Anche se forse Draghi non ne è consapevole, usare questi termini nell'Italia di oggi significa evidenziare che la priorità oggi è il dissesto dell'economia privata, che dovrà presto fare i conti con una valanga di fallimenti e licenziamenti; e certo non ci sarà alcuna coesione se lo Stato continuerà a fare figli e figliastri. Finora i dipendenti pubblici non hanno mostrato alcuna forma di solidarietà nei riguardi dei tanti baristi e negozianti costretti a chiudere.
Eppure quanti dispongono di un «posto fisso» dovrebbero essere consapevoli che lo Stato può spendere soltanto i soldi che sottrae a imprenditori e lavoratori privati, e null'altro. Uccidere il sistema produttivo con tasse e regole ridurrebbe in miseria pure loro.
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