Come ormai dimostrano chiaramente gli attentati di Parigi, Nizza e questi ultimi a Berlino e Istanbul, il terrorismo islamico ha ormai cambiato «modus operandi». Non colpisce più singole personalità o obiettivi precisi, militari, strategici che richiedono un'organizzazione complessa, finanziamenti ecc. e, proprio per questo, risultano più semplici da individuare, contrastare e prevenire.
Oggi attacca i cittadini, nei luoghi di ritrovo e di divertimento, in occasione di ricorrenze e feste, in modo da uccidere il più alto numero di persone possibile. Non c'è bisogno di una grande organizzazione. L'Occidente pullula di potenziali terroristi, di singole cellule «impazzite» che, con mezzi e armi rudimentali e di facile reperimento, a partire dai camion - e per questo molto più difficili da individuare e più imprevedibili , sono in grado di provocare vere e proprie stragi. Si tratta di una strategia semplice e di un'efficacia mostruosa. Che sembra avere un duplice obiettivo. In primo luogo terrorizzare le popolazioni dei Paesi occidentali per indurli poi a reagire e a regredire al livello dell'estremismo islamico. Quella che era una contrapposizione tra religioni si è trasformata in una guerra di civiltà. Se le democrazie liberali cedessero alla tentazione di porsi sullo stesso piano del terrorismo islamico, regredirebbero di qualche secolo e la civilizzazione occidentale tornerebbe a prima dell'illuminismo. L'islam non lo ha conosciuto e non ha operato quella separazione che l'Occidente ha fatto tra religione e politica. La religione non ammette transazioni e compromessi, che sono invece la cifra della politica.
Questa opera sul terreno della relatività tra valori contrapposti e, salvo che nei regimi assoluti, non è animata da principi e valori tra loro inconciliabili. L'islam fa ancora coincidere religione e politica, caratterizzandosi, sul piano storico, come un regime autoritario e illiberale. È vero che qualche secolo fa nei Paesi islamici riparavano i cristiani e persino gli ebrei perseguitati, trovandovi spirito di tolleranza e libertà. Ma è altrettanto vero e incontrovertibile che la storia ha fatto il suo corso e l'islam è oggi fautore di regimi autoritari, che negano le libertà e l'equiparazione tra uomini e donne, relegando queste ultime a una condizione di permanente sudditanza ai maschi. Oltre a una contrapposizione religiosa, «una guerra religiosamente motivata», come sottolinea Panebianco, chiedendosi come mai tante persone fatichino ad ammetterlo che siamo di fronte a una vera e propria guerra di civiltà. Dirlo non è razzismo. È un dato di fatto storicamente innegabile. Tra le tante cose da fare, forse sarebbe utile partire anche da qui.
Dal coraggio di uscire dal confortevole politically correct della sinistra salottiera e, purtroppo, dello stesso Vaticano - che garantisce ancora una certa ascendenza sull'opinione pubblica - e iniziare a chiamare le cose con il loro nome. Perché evitare accuratamente di aggiungere al sostantivo terrorismo l'aggettivo islamico? Perché i fatti continuano a essere «delle cose terribilmente ostinate», come sosteneva Lenin? Se siamo in guerra, come ormai sono disposti ad ammettere nel resto d'Europa e negli Stati Uniti, come in ogni guerra la prima cosa è individuare e conoscere il proprio nemico. La classe dirigente italiana, a tutti i livelli, è prigioniera di una cultura che si domanda perché le cose avvengono e non (in modo empirico) come avvengono. È una cultura che giudica prima di capire, filosofeggia invece di fare. Osserviamo il mondo attraverso categorie ideologiche (giustizia, eguaglianza) che derivano dai totalitarismi di destra e di sinistra, che abbiamo combattuto, ma di cui abbiamo conservato il lessico. Al contrario degli anglosassoni, che invece hanno sempre guardato al mondo per problemi concreti, a cui danno priorità politica a seconda delle circostanze. In questo modo, ieri non abbiamo capito che il comunismo era una religione truccata da programma politico e oggi non capiamo che il fondamentalismo islamico è un programma politico truccato da religione.
Sarebbe anche ora che la politica programmasse una qualche soluzione e provvedesse ad applicarla sul fronte dell'invasione migratoria. Un modo di affrontare il fenomeno potrebbe essere quello di bloccare le partenze dai luoghi d'origine. Naturalmente, bisognerebbe mettersi d'accordo con i governi dei Paesi di partenza dei barconi. Sarebbe un accordo costoso perché si tratterebbe di andare ad investire in quei Paesi per trattenervi chi se ne vuole andare , ma pur sempre socialmente ed economicamente meno costoso di quanto non sia già accogliere migliaia di uomini, donne, e bambini che, poi, non si sa dove mettere e come occupare.
In Libia era stato fatto, ma sappiamo, con la scellerata scelta di fare fuori Gheddafi, come è andata a finire. In questo senso, sembra che il ministro Minniti stia iniziando a muoversi nella giusta direzione. È inutile oggi stare a vedere se Renzi ha colonizzato o meno servizi e Viminale con uomini del Pd. Più importante sarà vedere come si comportano di fronte alle diverse emergenze. L'Italia aveva provato a rimpatriare il tunisino che ha compiuto l'attentato a Berlino, dopo che questi aveva dato fuoco al campo profughi dove era ospitato, ma la Tunisia ha detto di no. Un fatto del genere non può ripetersi. Un maggiore e più efficiente coordinamento europeo e tra le varie intelligence è poi indispensabile, come mostrano le numerose lacune e gli errori commessi finora. Se non si provvede rapidamente, e efficacemente, rischiamo di dover convivere a lungo con l'immigrazione di massa. Un fenomeno che, come si vede, non siamo in grado di gestire.
E che porta con sé il pericolo dell'arrivo di nuovi potenziali o già sperimentati terroristi.
Siamo una tappa di transito verso i Paesi europei del Nord, ma il rischio è che molti immigrati si fermino in Italia sollecitati da un'accoglienza che li gratifica, malgrado l'opposizione delle Regioni dove essa si attesta. Prima che essa produca una reazione popolare e sociale, da parte degli italiani che ne fanno le spese, occorre che la politica intervenga, in vista di una soluzione che scongiuri altri arrivi indiscriminati.
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