"Quando ho sentito l'esplosione, i terroristi erano già entrati". Sono le 12.51 del 17 dicembre 1973. Nell’area transiti dell’aeroporto di Fiumicino un commando di cinque palestinesi fa irruzione carico di armi ed esplosivi. I fadayyin esplodono raffiche tra la folla e prendono in ostaggio sei agenti. È l'inizio della più sanguinosa strage terroristica in Italia, dopo quella di Bologna: 32 morti e 17 feriti. Un eccidio firmato "Settembre Nero".
Se anche quest’anno non avete sentito parlare di quei drammatici eventi, non dovete stupirvi. È una pagina di storia carica di domande senza alcuna risposta e misteri in parte ancora coperti dal "segreto di Stato". Tra questi, oggi ne spunta un altro. È la storia di tre proiettili, di una foto, di un conflitto a fuoco. Antonio Campanile, ex guardia di P.S., dopo 46 anni racconta la sua versione: "Nessuno ne ha parlato, non so perché. Ma la polizia quel giorno ha risposto al fuoco dei palestinesi. E a sparare sono stato io".
Fiumicino è un inferno. Dopo l’irruzione il commando di fedayyin si divide in due: un gruppo si dirige verso un Boeing 707 della Pan American in partenza per Teheran e getta due bombe al fosforo nell’aereo già carico di passeggeri. Tra le fiamme muoiono 30 persone (tra cui 4 italiani). Mentre il velivolo brucia, la seconda parte del commando raccoglie altri ostaggi e si impadronisce di un aereo della Lufthansa in attesa di partire per Monaco. "Dopo l’esplosione - racconta Campanile - sono andato nell’ufficio del comando e dall’armadietto blindato del maresciallo ho preso un MB con quattro caricatori. Insieme ad altri due poliziotti sono salito sul terrazzo che affaccia all’interno dell’aeroporto". Di fronte c’è il volo Lufthansa sui cui sono stati fatti salire gli ostaggi. A bordo ci sono i due gruppi di fedayyin e 14 persone, tra cui i sei agenti e l'equipaggio. Dopo qualche minuto scendono un terrorista, il comandante, un tecnico dell’ASA e un giovane finanziere. Si dirigono verso la coda dell’aereo per "staccare il tubo del rifornimento carburante e chiudere il bocchettone di presa" in vista del decollo. Il militare si chiama Antonio Zara, è corso sul posto dopo l'allarme diramato dalla sala di controllo e ha provato a reagire: sarà la 31esima vittima. "Dallo sportello posteriore - racconta Campanile - un palestinese sparava contro le vetrate, sparava dappertutto. L’ho visto mentre colpiva alle spalle il povero finanziere. Poi ha iniziato a esplodere raffiche anche verso di noi. A quel punto ho risposto al fuoco".
In realtà, sull'uccisione di Zara la versione dei documenti ufficiali e quella di Campanile non collimano. Una foto storica (seconda al premio Pulitzer nel 1974) ritrae il militare 19enne agonizzante a terra. Secondo la relazione inviata all’allora ministro Emilio Taviani, a sparargli "con crudeltà un colpo alle spalle" sarebbe stato il terrorista che era sceso con gli ostaggi in terra. Non quello rimasto a bordo, come sostiene Campanile. Quel che è certo, però, è che anche la Commissione ha potuto accertare "in modo inequivocabile" che, nonostante fosse stato diramato l’ordine di non sparare, una azione di fuoco "è stata esercitata dalla polizia dal terrazzo dell’aerostazione". Esiste anche una fotografia, scattata da Elio Vergati per l'Ansa, che mostra due poliziotti distesi a terra. "Quello con il Mab sono io", assicura Campanile. "Ho esploso tre colpi, il terrorista si è sentito minacciato e si è rintanato dentro all’aereo. Lo tenevo sotto tiro e mi dicevo: ‘Appena esce, gli sparo un’altra volta’".
Ma il terrorista non si è più affacciato. Anzi. Chiusi i portelloni, il volo Lufthansa decolla e inizia un assurdo pellegrinaggio nei cieli del mondo. Fa prima tappa ad Atene, dove resta per 16 ore e dove i palestinesi gettano sulla pista il corpo esanime del tecnico dell’Asa, Domenico Ippoliti. Poi vola verso Beirut. Le autorità libanesi negano l’atterraggio, così come Cipro. I fedayyin trovano allora riparo a Damasco per il rifornimento di carburante e concludono la loro folle corsa a Kuwait City. Arrestati e condotti in segreto in una base aerea, la loro estradizione verrà sempre negata all’Italia: saranno rilasciati e consegnati all’OLP. Di loro, da quel giorno, non si è saputo più nulla.
La sorte degli autori della strage non è l’unico buco nero di questa vicenda. Su quel giorno si adombrano le nubi nere dei presunti depistaggi, di allarmi non tenuti in considerazione e, soprattutto, delle intese italo-palestinesi. Gli accordi segreti tra governo italiano e settori della resistenza palestinese, che prevedevano il passaggio di armi in Italia in cambio dell'impegno dei terroristi di non colpire il Belpaese, erano già in atto? Oppure il "lodo Moro" era solo in fase di trattativa? E ancora: ci fu davvero dietro la mano della Libia? Le molte domande restano oggi, come allora, senza risposta. E lentamente l’episodio è finito nell'oblio. Quella di Fiumicino è una "strage dimenticata", così come la storia di chi quel giorno si trovò a fronteggiare l’inferno. "Nessuno mi ha mai interpellato - dice Campanile - Era diventata una questione top secret. Nessuno faceva domande. Mi dicevano che era una cosa che dovevo tenere per me".
Eppure la sua testimonianza, se confermata, può essere un tassello importante di un puzzle ancora incompleto. Per il figlio Luigi, papà Antonio con la sua azione avrebbe bloccato o almeno ridotto l’attacco terroristico. Dopo il decollo del volo della Lufthansa, Campanile riconsegna l'arma e dichiara ai superiori di aver esploso tre colpi. "Quei bossoli sono andato a prenderli da terra insieme a un altro poliziotto, sono stati infilati in una busta gialla e consegnati al comandate dell'aerostazione". L’agente scrive una relazione di servizio (che però "non si trova più"), viene portato in caserma alla Magliana e tenuto in consegna per sei giorni. "Non potevo uscire - racconta - né contattare i miei familiari. Un giorno sono stato portato alla Guido Reli per parlare con l'ispettore Ugo Macera. Ho spiegato di aver aperto il fuoco per legittima difesa, visto che il terrorista non smetteva di spararci addosso. E ho aggiunto di non aver insistito perché c'era il rischio che una pallottola potesse bucare l'ala carburante". Dopo quel colloquio, "non ho più visto i tre bossoli". Solo il 24 dicembre a Campanile viene concessa una licenza breve per tornare a casa, la fine di quello che considera un "sequestro" operato dallo Stato: "Non avevo fatto niente di male e mi hanno trattato come un delinquente".
Dopo 46 anni Campanile ha deciso di raccontare la sua storia. Un libro è pronto per la pubblicazione, non appena un editore vorrà farsene carico. Si intitola: "Lo sparatore sono io". Alcuni si chiedono perché non abbia mai parlato prima d'ora. "Ho deciso di farlo dopo aver letto un libro sull’attentato dove si citava di tutto, tranne la nostra azione. Non mi ritengo un eroe, ma mi ha dato fastidio che nessuno abbia cercato di interpellare quell’agente con il Mab sul terrazzo".
La relazione ufficiale parla della "azione di fuoco di alcuni agenti di Ps", senza però indugiare oltre. E nessuno ha mai seguito questa pista. È lei l’agente misterioso che ha sparato al terrorista palestinese? "Sì, certo che sono io. Ma qualcuno ha voluto tenere nascosta questa storia".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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