Ridate al mondo Venezia! Non c'è un altro luogo, come Venezia, che dia la misura degli errori mortali contro la vita e contro l'umanità di questa infelice stagione. Siamo stati sorpresi, disorientati, e alla fine umiliati, attraverso la minaccia per la nostra incolumità. Nell'incertezza ha prevalso la paura, e ognuno ha accettato, davanti alla invereconda ostensione di bare e di ospedali, di medici e di infermieri, con un'ossessiva ripetitività, che ovunque eravamo in pericolo. Abbiamo rinunciato a pensare quello a cui ci avevano educato da ragazzi: stare all'aria aperta, passeggiare in campagna, camminare in un bosco, esporsi al sole in una spiaggia sono diventate gravi infrazioni. Eppure è evidente che un morbo si diffonde meglio al chiuso che all'aperto. Ma il nuovo virus è un'altra cosa. È entrato, prima che nei corpi, nelle menti, devastandole, facendoci perdere la ragione; per due mesi tutto è stato fermo, e ancora poco si muove: di quella immobilità la più evidente metafora è Venezia.
Uscita da poche settimane dalla violenza dell'acqua alta, disertata per i disagi e le difficoltà determinate dalla natura, non ha fatto in tempo a tentare di rialzarsi che è stata mortificata dalla malattia immaginaria. E già sento le voci di chi dice: «Il solito Sgarbi, pronto a sottovalutare il pericolo», dimenticando che chi ha indirizzato il governo, il capo della Protezione civile, fino ai primi di aprile protestava di non portare la mascherina, giudicandola inutile. Mentre oggi la mascherina è diventata un dogma. Tutti mascherati. Quando il semplice uso della ragione dovrebbe farci riflettere che portarla all'aperto è dannoso, perché si concentrano i microbi su se stessi, respirando più anidride carbonica che ossigeno, e sottraendo il virus all'azione reattiva degli alberi. Nulla è più salutare che stare all'aria aperta, nulla fa meglio che camminare in un bosco o correre in un parco. Chi usa la mascherina all'esterno vuole farsi male. Ma ormai è una parola d'ordine. Ci difende, ci rassicura.
L'assurdo si misura a Venezia. A Venezia non circolano le automobili, si cammina a piedi, si sta all'aria aperta, alle Zattere, alla Giudecca, ai Gesuati. Davanti c'è la laguna, e poi il mare. È doloroso vederla deserta. Certo, cosmopolitismo e turismo, nell'affollarsi delle persone, sembrano favorire il rischio. Ma in quella luce, in quell'aria, il vuoto sembra assurdo. Sarebbe dovuto venire a Venezia e avvertire queste contraddizioni il capo del governo, invece di farsi dare numeri e proiezioni da comitati scientifici senza certezze, disorientati dalla paura, e pronti a rispondere con una sola parola: clausura. E adesso siamo arrivati alla città morta. Ma basta passeggiare nei giardini di Palazzo Reale, meravigliosamente recuperati con un sapiente restauro, per capire che Venezia è la salute, che essere qui è la cura per il corpo, per gli occhi e per lo spirito.
Il primo architetto di giardini italiano, Paolo Pejrone, è stato chiamato dalla Fondazione Venice Gardens, presieduta da Adele Re Rebaudengo, per restituire ordine e pulizia a quegli spazi che furono voluti nel 1806 da Napoleone e da Eugenio di Beauharnais. Giovanni Antonio Antonini disegnò i primi progetti per la residenza che doveva essere dotata di un giardino sul terreno affacciato sul bacino di San Marco. Un ordine nuovo, per accompagnare lo sguardo verso le lagune. Dopo la caduta di Napoleone e con la restaurazione, gli austriaci vollero nuovi e misurati interventi: una serra sul ponte della Zecca e, dalla parte opposta, una elegante Coffee House in stile neoclassico disegnata da Lorenzo Santi, fra il 1815 e il 1817. Un ponte levatoio sul rio della Zecca collegava il giardino alle Procuratie, per consentirne l'uso come giardino del Palazzo Reale con passeggiata sull'acqua. Nel 1857 il viale lungo la riva fu separato dai Giardini, e aperto al pubblico, per volontà dell'arciduca Ferdinando Massimiliano; mentre i Giardini furono in uso esclusivo della Corte. Alla fine del XIX secolo fu realizzato un pergolato con una struttura in ferro e ghisa che è uno degli elementi più notevoli dell'architettura dei Giardini. Il 23 dicembre 1920 i Giardini Reali vennero aperti al pubblico e consegnati al Comune.
Dopo cento anni ritornano ordinati e si riaprono, per richiudersi quasi subito. Insensatamente, se si pensa che i sanatori sorsero in spazi all'aperto, magari immersi nei boschi, in luoghi favorevoli per ragioni climatiche e geografiche. E tutto si giocava nell'aria, leggera come quella trasparente nella luce dei giardini reali. Ci si avvia per Calle Vallaresso, sfiorando il leggendario e tragicamente chiuso Harry's Bar, da sempre animato da una folla multicolore e felice. Chiuso. Vuota la Calle, lungo la quale passeggia un giovane solitario e mascherato. Si curva a destra, per entrare in Piazza San Marco, vuota come mai fu in tutte le animate Vedute del Canaletto. Passeggia un uomo con il cane e si agita la troupe di una televisione belga. Tagliamo, attraverso i cortili delle Procuratie nuove, per arrivare al Museo Correr e alle nuove sale che si affacciano sui giardini. In un elegante e sobrio allestimento sono accolte alcune celebri sculture di Canova: Apollo e Dafne, Dedalo e Icaro, Perseo con vari cimeli e grandi lastre in gesso con bassorilievi. Si avverte la sensazione di essere in un museo, in un ordine semplice ma costretto a misurarsi con il vicino allestimento storico di Carlo Scarpa. Un'epoca lontana, che sembra voler segmentare i grandi spazi in ridotte stanze di meditazione, per i capolavori di Antonio Vivarini, Michele Giambono, di Cosmè Tura, di Antonello da Messina, di Giovanni Bellini, di Lorenzo Lotto, piccoli quadri per grandi pensieri.
Ma il passo cambia quando si arriva nelle sale imperiali che si affacciano sui giardini. Questi spazi riconquistati, ora vuoti e solitari, sono uno spreco di bellezza e muovono una malinconia che in me intreccia storia e memoria, in quegli stessi ambienti. Era il 1977, e io ero appena entrato nei ruoli della sovrintendenza alle Belle arti, come ispettore. Il destino mi avrebbe fatto incontrare una donna bella e di grande talento, Maria Teresa Rubin De Cervin, e avrei così perlustrato altre stanze destinate all'ufficio Unesco per la salvaguardia di Venezia. Fu un periodo felice, con il dominio di quegli spazi ritagliati con incredibile privilegio, e in una storia sospesa e rimossa. Gli specchi di Murano, la dormeuse che oggi ho rivisto, le sedie erano lì per il nostro uso, lontani dalla pietrificazione di un museo. Le sere d'estate eravamo divinità incontrastate per una miracolosa circostanza.
Passarono gli anni, e nel 1985 partii da Venezia, da quel luogo di felicità. Ci ritornai nel 2009 e nel 2010 come sovrintendente del Polo museale, e mi ritrovai in altri uffici altrettanto sontuosi. Stavo, come in un caleidoscopio, in una stanza riparata, di gusto orientale. Un doppio sogno, oggi, nella luce tersa che viene dalla laguna. Quegli ambienti sono stati restituiti alla storia, più nessuna manomissione d'uso, carte, libri, scaffali, faldoni di archivio. Un ritmo pausato di stanze parzialmente riarredate, con il gusto e l'attenzione di Gabriella Belli, per rivivere un'emozionante leggenda, a lungo rimossa: quella dell'imperatrice Sissi a Venezia. Qui ritroviamo, anche attraverso i suoi ritratti, il suo spirito. Malata di idropisia, Sissi passò i suoi sette mesi veneziani rinchiusa nel Palazzo Reale, allestito seguendo i suoi gusti. Il restauro lungo e complesso ha voluto anche ricreare lo spirito del periodo di Sissi. Tutti gli arredi, dai broccati, agli stucchi, ai marmi, agli ori, gli stemmi, ai tessuti (realizzati dalla famiglia Rubelli e donati per l'occasione) riprendono fedelmente quanto è annotato nei registri mobiliari dell'archivio storico-museale, e sono stati talvolta riprodotti da pazienti architetti, stuccatori e pittori. Manca il letto originale della principessa, sostituito dal letto da riposo in stile impero del figliastro di Napoleone, Eugenio di Beauharnais, vicerè del breve Regno d'Italia creato dal Bonaparte tra il 1806 e il 1814. E tutto questo per nessuno.
Natura, aria, aura,
storia, amore e poesia: tutto si annichilisce in queste giornate vuote e assurde, in cui l'uomo sembra dimenticato da Dio. Che pure si manifesta nella luce tersa. C'è. Restituiamolo a Venezia, e restituiamo Venezia al mondo.
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