Catturato, imprigionato e torturato per anni. Prima in Libia, dove era arrivato dall'Eritrea con la speranza di salpare per l'Italia. Poi, probabilmente, anche in Sardegna, dove è morto. La sua unica colpa? Una croce appesa al collo.
È la storia raccontata da La Stampa di Alizar Bhrane, morto poco più che ventenne a Cagliari dopo essere sfuggito dalle mani dell'Isis. Il giovane ha passato tre anni in una prigione gestita dai miliziani del Califfo in Libia. Era stato proprio quel simbolo cristiano da cui non si separava mai a farlo entrare nel mirino dei jihadisti.
Fino a che non è riuscito finalmente a liberarsi a salpare con uno dei barconi della speranza che attraversano il Canale di Sicilia. Il corpo pieno di cicatrici, Alizar è sopravvissuto anche al mare e a marzo scorso è arrivato in Sardegna. Qui nei giorni scorsi aveva ottenuto il permesso per lasciare l'ex albergo diventato centro profughi, ma martedì mattina è stato trovato agonizzante su un piazzale alla periferia di Cagliari. Portato al pronto soccorso, i medici non hanno potuto far altro che constatarne la morte cerebrale. E procedere al trapianto degli organi donati dal giovane a cinque persone. "Gli amici ci hanno raccontato che era un ragazzo molto timido, riservatissimo, che aveva sofferto tantissimo", ha raccontato uno dei medici a La Stampa.
Come e per mano di chi è stato ucciso? Ancora una volta è stato massacrato "per colpa" di quel crocefisso e per la sua fede? Gli inquirenti pensano sia caduto da un albero sul quale si sarebbe arrampicato per rientrare in albergo dopo non aver rispettato l'orario di rientro. E anche i medici sostengono che non ci siano i segni di un pestaggio.
Una ricostruzione che non convince i suoi compagni: "Perché doveva passare dalla finestra?", si chiede un altro eritreo, "Era un ragazzo timidissimo e diffidente, non era uno che andava in giro a ubriacarsi".
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