Toti, il vincente tradito dalla fretta

Troppa fretta. E troppa insofferenza. Peccato. Non gli piacevano rituali ormai logori, discorsi precotti come certi cibi d'asporto e cerchi magici, veri o verosimili che fossero

Toti, il vincente tradito dalla fretta

Troppa fretta. E troppa insofferenza. Peccato. Non gli piacevano rituali ormai logori, discorsi precotti come certi cibi d'asporto e cerchi magici, veri o verosimili che fossero. Giovanni Toti ha la faccia di velluto, ma con Forza Italia, quando è arrivato quello che lui considerava il momento, ha lacerato la tela fino a strapparla. Aveva le sue ragioni, negli ultimi due o tre anni la fronda era cresciuta, poi il governatore della Liguria - appena riconfermato con percentuali mai viste dal centrodestra in questa striscia di terra stretta fra le montagne e il mare - si è sentito prigioniero nel ruolo di coordinatore del partito e ha rotto gli ormeggi.

Oggi, forse, tornerebbe indietro, al 2019 e alla scelta fatale di troncare il cordone ombelicale che portava al Cavaliere, con cui ha vissuto almeno due vite, nel giornalismo e nella politica, per mettere in rampa di lancio la sua impaziente creatura: Cambiamo!

Operazione fallita, causa capriola mortale di Salvini che puntava a formare un nuovo governo di cui Toti sarebbe stato forse ministro, finendo invece nell'angolo, tradito da Zingaretti e incartato da Renzi.

La rivoluzione di velluto è svanita sul nascere, il neonato è rimasto imbottigliato nelle retrovie della confusa estate 2019.

Oggi, però, si capisce che il sogno non si è interrotto, ma è passato attraverso la cruna della buona amministrazione, la ricostruzione virtuosa del Ponte Morandi, quasi un format positivo per l'Italia perennemente ingarbugliata, per le mille emergenze tamponate dall'onnipresente assessore alla Protezione civile Giacomo Giampedrone. Se cinque anni fa era stata la sinistra a perdere con le sue eterne faide, oggi è lui a vincere. La Liguria, regione quasi etnicamente rossa, ha premiato il moderato Toti e ha riempito di consensi la sua creatura, primo partito davanti al Pd, alla Lega e ai grillini, in caduta libera nella città di Beppe Grillo.

In questi mesi, Toti ha ripreso la sua centralità, non è più, ammesso che lo sia stato, un satellite salviniano destinato fatalmente ad essere assorbito dal pianeta più grosso.

S'intravede un altro stile, forse pure un'altra eleganza. Diciamo che, in qualche modo, Toti sta a Forza Italia come Zaia alla Lega. Zaia, pure trionfatore nel suo Veneto, sembra un po' il leader di un partito alla bavarese, gemellato e legato a filo doppio alla motrice salviniana, in realtà indipendente. Ma non è così, è dentro la Lega, ne rappresenta un'evoluzione quasi democristiana, senza asperità, antropologicamente più seducente, attenta al Mose, alla Pedemontana, all'emergenza Covid. Meno sbavature e meno fumo per una Lega 2.0 che potrebbe rappresentare il domani delle truppe salviniane.

Lo stesso discorso si potrebbe quasi applicare, da Nord Est a Nord Ovest, con Toti, ma lui ha tagliato i ponti, ha accelerato mentre Zaia stava immobile, muovendosi freneticamente ma dentro i confini del Leone di San Marco.

Certo, le parabole e le storie di Berlusconi e Salvini sono diverse ed è sempre difficile azzardare paragoni. Ancora più problematico ragionare mettendo in fila i se e i ma. Resta però quella strada abbandonata, molto più di un problema di nomenklatura o di figurine del potere azzurro.

L'elettorato sembra cercare profili rassicuranti, magari decisionisti, ma dal piglio

manageriale se non dalle fogge sartoriali. Forse è solo una tendenza in un momento di smarrimento, ma magari indica una traiettoria. Zaia è una carta di riserva, Toti, almeno in questa fase, è fuori dal mazzo. Poi si vedrà.

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