Non inasprite le sanzioni, perché tanto non ci fermeremo. Vladimir Putin lo ripete per la terza volta in due settimane. Ma questa volta lo fa davanti ad una centrale nucleare in fiamme, ad una Kiev assediata, ad una Kharkiv in rovina, ad un esercito russo che nella sua lenta avanzata travolge migliaia di civili e si lascia dietro perdite pesantissime. Proprio per questo le sue parole fanno impressione. E ci fanno capire che l'Ucraina del 2022 non sarà né la Georgia del 2009, né la Crimea del 2014, né la Siria del 2015, ma qualcosa di molto più lungo, molto più sanguinoso, molto più devastante. Qualcosa che non si risolverà con il solito negoziato offerto da Zar Vladimir alla fine di ogni conquista.
In quel doppio monito sulle sanzioni e sulla volontà di proseguire la guerra ad oltranza c'è un pensiero metastatizzatosi negli ultimi otto anni. Un'ossessione, ai nostri occhi enigmatica e irrazionale, in cui l'Ucraina diventa lo spartiacque decisivo tra l'aspirazione, mai negata, di riportare a Mosca uno dei due poli del mondo e l'inaccettabile sottomissione alle regole del cosiddetto «schieramento liberale». Uno schieramento di cui Putin non si considera più semplice avversario, ma nemico giurato. Un concetto brutale come l'azione militare che l'accompagna, decodificato ieri, a Mosca, dal pensatore radicale Alexander Dugin, forse poco condivisibile, ma assai in sintonia con il presidente russo e capace d'interpretarne mosse ed azioni. Nel Putin-pensiero, sviluppato dopo la cacciata, nel 2014, di Viktor Yanukovich, ultimo presidente filo-russo, l'Ucraina è la scacchiera su cui si decideranno l'autonomia della Russia o la sua sudditanza all'Occidente. Per questo, nell'ottica del Cremlino, la partita può concludersi soltanto con la restaurazione di un'Ucraina in cui valgano le regole di Mosca. Costi quel che costi. Una spiegazione che lascia poco spazio all'ottimismo e apre lo sguardo su un mondo dominato da una logica non solo diversa, ma assolutamente opposta a quella Occidentale.
Prendiamo le sanzioni. Invitando a non inasprirle, lo Zar non ci chiede di risparmiarlo. Ci ammonisce piuttosto a non fargli perdere la pazienza. «Putin - spiega Dugin - è pronto a sacrificare gli oligarchi per la salvezza del popolo russo». Come dire: non illudetevi, gli oligarchi non lo faranno cadere, sarà lui piuttosto a liberarsene non appena risulteranno inutili alla sua economia. O, meglio, alla sua autarchia.
Proprio per questo l'Occidente deve chiedersi oggi come sarà in grado di rispondere. E fino a dove avrà la forza di spingersi. Perché la partita stavolta è decisiva. E più si prolunga più diventa priva di vincoli e di regole.
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