"Vi racconto 90 anni passati a studiare il cuore italiano"

Il grande sociologo compie 90 anni e racconta: da ragazzino sotto il fascismo agli anni del boom, dalla contestazione alla crisi della coppia fino ai "movimenti" di oggi. Fra politica e infatuazioni

"Vi racconto 90 anni passati a studiare il cuore italiano"

Diecimila volumi in libreria (il calcolo è empirico, basato sul numero di scaffali lungo le pareti), oltre 60 titoli in bibliografia - dalla prima ricerca pubblicata nel 1960 sui fattori culturali dello sviluppo economico fino alla nuova edizione aggiornata di “Leader e Masse” uscita l’anno scorso – con in mezzo almeno due-tre longseller pesanti – poi un saggio previsto la prossima primavera con La nave di Teseo sul rapporto tra Tempo e Amore («Quando sei innamorato vuoi sempre sapere cosa sta facendo l’altro, lo pensi, lo chiami, mandi un messaggino... L’amore ha un carattere di continuità: quando sei con la persona amata non ti accorgi del passare del tempo, mentre senti con dolore quando non c’è...»), un paio di collaborazioni giornalistiche, col ”Giornale” e una immemorabile con “Dipiù” («Mi fanno scrivere quello che voglio, senza mai dirmi nulla... Si ricorda vero che dal 1982 al 2011, ogni lunedì, sul “Corriere della Sera” tenevo la rubrica intitolata “Pubblico e privato”? Beh, un giorno il direttore, Ferruccio De Bortoli, mi dice: “Ma, insomma, professore, una persona del suo livello che parla di reggiseni e mutandine...». Forse non sapeva che io, come sociologo, ho cominciato proprio da lì, studiando che tipo di lingerie volevano le donne italiane, e peraltro indovinando il futuro del Paese, a 26 anni... Comunque, lì ho capito che mi stavano mandando via»), un giornale online, “Alberoni magazine” («Non lo faccio da solo, però ci scrivo quasi tutti i giorni, mi diverto molto...», titoli degli interventi più recenti: Pene d’amore e fantasie di morte, L’amante segreto, Il tempo dell’innamoramento...), una carriera universitaria durata 40 anni (alla Cattolica e alla Statale di Milano, a Catania, a Roma e a Losanna); due rettorati (a Trento e allo IULM), tre mogli («No, in realtà una prima moglie, una compagna e poi la seconda moglie... Sì, potrei anche sposarmi un’altra volta, certo. Cos’è il matrimonio oggi? Una scelta che molti fanno per tranquillizzarsi, ma è un’istituzione sempre più minacciata dai grandi cambiamenti della società: avendo sdoganato completamente la sessualità, si tende a mescolare sempre di più sesso e amore, ma se li mescoli male, sono guai, perché si destabilizza la coppia»), quattro figli, un elegante appartamento dentro la cerchia a Milano («Ma sto partendo per Forte dei Marmi») e 90 anni tra una settimana, il 31 dicembre. A proposito: Auguri.

Francesco Alberoni – basetta lunga, dolcevita a collo alto e nessuna paura della morte («Ho troppe cose da fare per pensarci») - non è nemmeno più un professore, è un eponimo. Alberoni – nomen omen della sociologia in Italia – è l’innamoramento, l’Amore, i movimenti collettivi, lo Stato nascente...

Nasce a Borgonovo Val Tidone, Bassa piacentina: 31 dicembre 1929.

«La mia era una famiglia piccolo borghese, sono nato a casa della nonna, poi dopo pochi mesi ero già a Piacenza. Ho studiato alla Scuola Alberoni, c’era via Alberoni, il Collegio Alberoni... Un cognome molto diffuso. Poi, scoppiata la guerra, siamo sfollati a Cortemaggiore, in campagna. Io avevo quindici anni, e volevo solo starmene fuori da tutto. Mi sono imboscato».

Cosa fu per Lei, ragazzino, il fascismo?

«Anche se ero piccolo, ho capito cos’era il culto del capo e la forza della propaganda. Anni dopo seppi dei campi di sterminio nazisti e, attraverso un amico il cui padre era un comunista molto addentro dei segreti del Partito, venni a sapere tutto sullo sterminio dei contadini, le purghe staliniane, il massacro degli anarchici spagnoli... Insomma, col tempo mi resi conto che la politica, a destra e a sinistra, è una terrificante miscela di ideologia e mito, di fede ed eroismo. Ma anche di cinismo, tradimento, menzogna, crudeltà».

E la cosa l’ha resa diffidente verso l’agire politico.

«Ma mi ha spinto a studiare le esplosioni sociali da cui hanno origine i partiti, le rivoluzioni e le guerre: i movimenti collettivi».

E la guerra, cosa fu per Lei?

«Più che un pericolo, un fastidio. Non si poteva studiare in modo regolare, non ci si poteva muovere, niente libri...».

Dopo la guerra si è rifatto.

«Liceo Scientifico a Piacenza. Avrei preferito il Classico, ma non puoi fare sempre quello che vuoi. E ciò che non mi ha dato quel liceo, dove pure ebbi insegnanti ottimi, l’ho imparato da autodidatta. Poi mi sono iscritto a Medicina a Pavia. Volevo fare psichiatria e occuparmi dell’animo umano, come Freud o Jaspers, i miei modelli. A vent’anni avevo letto tutto Freud, Abraham, Melanie Klein. A ventuno tenni la prima conferenza sulla psicoanalisi davanti a professori e studenti... E alla fine mi laureai in Medicina legale con una tesi sperimentale sulla psicologia della testimonianza».

E con la laurea, da Piacenza se ne va a Milano, primi anni ’50.

«Ero un po’ sprovveduto. Mi ero messo in testa di incontrare Padre Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica, che guidava il più importante istituto di Psicologia italiano. Volevo mostrargli delle ricerche sperimentali che avevo condotto per conto mio: studiavo psicoanalisi e statistica. E un giorno, dopo molte insistenze, mi permettono di vederlo. Scendo in questo sotterraneo dell’università, lui era in fondo, a leggere, sembrava Giona nel ventre della balena. Aveva in mano delle carte e mi chiede: “Lei hai fatte tu queste ricerche?”. Aveva letto tutto il mio lavoro, e gli era piaciuto».

La strada era aperta.

«Vinco il concorso per una borsa di studio, poi divento libero docente in Psicologia nel 1960 e in Sociologia nel ’61. Nel 1963 scrivo “L’élite senza potere”, una ricerca sul divismo».

E cosa scoprì?

«Che i divi non erano più solo figure idealizzate ma anche gli “oggetti selezionati del pettegolezzo collettivo” dentro una società sempre più internazionalizzata».

Ci vide giusto, mi sa. Poi nel ’64 arriva la cattedra di Sociologia.

«Ma io intanto continuavo a lavorare nel campo della Psicologia sperimentale. Però le ricerche americane, come i test, mi sembravano stupide. Preferivo campi più originali, la ricerca empirica, il rapporto tra società e consumi. Tanto che a un certo punto fu lo stesso Padre Gemelli a consigliarmi di fare ricerche per le aziende».

La prima fu proprio una ricerca su reggiseni e lenzuola...

«Seconda metà anni ’50. Le Telerie Bassetti mi affidano una ricerca sul ‘corredo’. Volevano sapere cosa preferivano le donne italiane: se dovevano continuare a produrre le lenzuola bianche tradizionali oppure buttarsi sulle novità: cioè il colore. Io prendo la mia Fiat 500 scassata, parto da Bolzano e vado fino al Meridione profondo, e ritorno».

E cosa scopre?

«Che tutte volevano il corredo e la lingerie colorata. E soprattutto che i contadini, in particolare le donne, volevano emigrare in città perché lì c’era il benessere e il futuro. E - a differenza delle emigrazioni in America e in Europa - non pensavano minimamente di tornare al paesello. Altro che pianti e nostalgia. Avrebbero voluto fermarsi per sempre nelle grandi città. Sceglievano la nuova vita urbana prima ancora di arrivarci. E predissi che ci sarebbero state migrazioni interne pazzesche. E così è stato».

E come finì con la ricerca?

«La Bassetti fece i suoi investimenti, e io la mia fortuna».

Docenza in Sociologia a 32 anni...

«Fu Padre Gemelli che prima di morire, nel ’59, mi disse: “Ho bisogno di un sociologo”. E io: “Che cosa? Cos’è?”. Mi fece mandare 50 libri, tutto quello che era stato tradotto in Italia sulla materia. Capii che eravamo troppo indietro in quel campo...».

Però Le piaceva.

«Feci una scoperta. Vede, io ho un pensiero astratto, molto intuitivo. Magari non riesco a dimostrare un modello matematico, ma lo capisco, lo vedo... Insomma, mi ero convinto che per passare da uno stato strutturato A ad uno stato strutturato B, si deve per forza passare da uno stato di transizione, il cosiddetto stato nascente. Cioè la “condizione nascente”, il momento in cui la leadership, le idee, la comunicazione si fondono dando origine al movimento, che poi è destinato a diventare istituzione. Detto così sembra un pensiero banale. Ma quando lo applicai ai movimenti collettivi – come il Sessantotto, in cui capii che i contestatori, i “rivoluzionari”, non sarebbero durati in eterno, ma si sarebbero presto stabilizzati, e infatti gli hippie dopo aver predicato e vissuto la libertà assoluta si organizzarono in comunità stabili, cioè un altro stato strutturato - ne vennero fuori riflessioni interessanti. E poi lo stesso schema lo applicai all’innamoramento. Che altro non è se non lo stato nascente di un movimento collettivo formato da due sole persone».

E dopo l’innamoramento, cioè il tentativo effettuato da due persone di operare una “rivoluzione” affettiva delle loro vite, si passa a un nuovo stato: l’amore, e poi al matrimonio.

«Oggi sembra una cosa semplice, scontata. Ma fino ad allora nessuno lo aveva scritto. Tutti parlavano dell’innamoramento come dell’eccitamento di una persona. Io parlai di due protagonisti. Concettualmente la differenza è un abisso. Nel 1979 pubblicai “Innamoramento e amore”. Fu un successo mondiale».

Che molti non le hanno mai perdonato.

«A volte sono stato riconosciuto dal popolo più che dall’accademia».

E più amato dagli studenti che dai colleghi professori. Un po’ quello che accadde all’Università di Trento, dove fu rettore in un momento cruciale, dal ’68 al ’70.

«Ero appena rientrato dagli Stati Uniti, dove ero andato a studiare i movimenti giovanili e dove avevo incontrato Timothy Leary, lo psicologo diventato il guru delle droghe psichedeliche... Intanto succede che a Trento occupano l’Università e molti docenti danno le dimissioni. E così vengono da me chiedendomi se voglio andarci io».

La facoltà di sociologia di Trento all’epoca era frequentata dai leader di punta del ’68 e alcuni poi avrebbero scelto la lotta armata.

«Non mi lusingava tanto l’idea di diventare Rettore, mi interessava l’idea di studiare sul campo il “movimento”. Così decisi di andare a vedere. Arrivo a Trento e partecipo a un’assemblea degli studenti. Mi siedo in fondo all’aula, per terra, ad ascoltare. A un certo punto entra un allievo di Pepin Vidal Beneyto, un mito per gli studenti, un tipo alla Che Guevara che avevo conosciuto in Spagna, negli ultimi tempi del franchismo, dove aveva fondato una scuola di sociologia. Comunque, appena questo ragazzo mi vede mi chiama - “Francisco! Francisco!” - e mi abbraccia davanti a tutti. A quel punto avevo conquistato i suoi compagni, cioè tutti gli studenti... Iniziava qualcosa di nuovo».

Come fu?

«Un periodo divertentissimo. Gli studenti lavoravano con me, decidevamo in comune i programmi, i laboratori, mi confrontavo coi capi del movimento: Rostagno, Boato, Curcio... Facevamo riunioni pubbliche al cinema. Avevo creato un gruppo formato da sei studenti e sei docenti che si riuniva attorno un tavolo – ci chiamavano i 12 apostoli – e discuteva su tutto, insieme. Fu un’esperienza unica».

Poi cosa accade?

«Che l’anno successivo arrivò di tutto: si era diffusa la voce che Trento era la “città rivoluzionaria”, e tutti i coglioni d’Italia si diedero appuntamento lì. Io non ebbi la forza di chiudere le iscrizioni, e passammo da mille iscritti – gli studenti del primo anno, tutti “scelti”, motivati – a 4-5mila, per lo più baluba... Non si poteva più lavorare seriamente, troppi problemi di gestione e di bilancio, e me ne andai».

A Catania. Poi alla Statale a Milano, a Roma, Rettore dello IULM dal 1997 al 2001... Lei ha passato una vita dentro l’Università. Com’era quella di ieri e com’è quella di oggi?

«Ieri come oggi ci sono isole di eccellenza in mezzo a un panorama mediamente scadente. Il nodo è il meccanismo dei concorsi, che non funziona: tu come rettore dovresti poter chiamare le persone che vuoi che lavorino con te, che sono utili alla Facoltà, invece alla fine ti mandano un collega di cui non te ne fai niente... Più in generale, poi, credo che un tempo l’Università aveva come compito principale quello di formare dei veri scienziati, oggi invece di sfornare insegnanti per le medie. Si fa sempre meno ricerca e studi originali e si dà attenzione soltanto alla didattica. Invece un buon professore dovrebbe insegnare sempre qualcosa di nuovo, quello che lui stesso ha imparato sul campo».

Lei infatti ha sempre affiancato all’insegnamento universitario le ricerche per le aziende.

«Con la Bassetti, come Le ho detto. Con Bonomi alla Postal Market e alla Miralanza, con Giuseppe Stefanel per il lancio della sua catena di negozi...».

Con la Barilla.

«Erano i primi anni ’70. Il gruppo stava attraversando un momento di cambiamenti: alla produzione tradizionale della pasta, i cui profitti avevano avuto una contrazione, volevano affiancare una produzione da forno. Biscotti, insomma. Sì, ma di che tipo? Con quale confezione? Non certo le vecchie scatole di metallo... E lo slogan? Così io, Manfredi, Allodi e Mambelli cominciamo a lavorare sotto il coordinamento di Giovanni Maestri per creare un nuovo marchio».

E nel ’74 nasce il Mulino Bianco.

«Era l’epoca delle Br, delle sparatorie nelle strade, della crisi del petrolio... L’Italia era un Paese sul baratro, in mano ai sindacati, con la paura che i comunisti avrebbero preso il potere. Un momento di pessimismo e paura».

E voi gli regalaste un sogno.

«No, qualcosa di concreto: un messaggio di ottimismo e speranza. Come si stava bene “Quando i mulini erano bianchi...”. La “nostra famiglia”, prima contadina e poi urbana, era affidabile e rassicurante. La gente comprava la serietà, prima ancora che i biscotti. Che poi erano buoni, intendiamoci. Ma l’idea lo era di più».

Le hanno rinfacciato spesso di essere l’ideologo di quella “schifezza” del Mulino Bianco?

«Abbastanza. Ma ho sempre continuato a occuparmi di prodotti, di consumi, di società, di movimenti...».

Come il grillismo, che Lei fu tra i primi a prendere sul serio. Oggi ci sono le sardine.

«Mi sembra un movimento debole, analogo ad altri fenomeni nati a Sinistra – il popolo arancione, il movimento Arcobaleno, i Girotondi – cioè ondate di piazza che hanno una base anche larga ma non un nucleo “ideologico” forte, militante. Al contrario dei grillini che invece avevano una loro ideologia, anarchica se vuole, ma c’era, e infatti hanno preso il potere e condizionato il Paese. No, le sardine in questo sono deboli, finiranno col buttarsi sull’ecologismo alla Greta Thunberg».

Professore, come passerà il compleanno dei 90 anni?

«A casa, ho invitato i miei amici. Tanti amici».

L’amicizia, sulla quale scritto molto, è il valore più importante?

«No. Il valore più importante è il rispetto.

A me non interessa essere amato, criticato o disprezzato. A me interessa essere rispettato, per come sono e per le mie idee. Ci pensa cosa potrebbe essere la politica, e la società, se ognuno, prima di tutto, rispettasse l’altro?».

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