
Per decenni, gli Stati Uniti hanno rappresentato un mercato illimitato per la maggior parte degli esportatori, consentendo a Paesi grandi e piccoli di trasferire la loro popolazione rurale da aziende agricole poco produttive a villaggi sovraffollati in cui si sono moltiplicate industrie a bassa tecnologia che producono indumenti, calzature, semplici utensili manuali e simili. In questa prima fase di apertura unilaterale del mercato, i poveri di tutto il mondo sono diventati meno poveri, mentre la classe operaia americana ha iniziato a perdere il lavoro. Nel frattempo, l'élite americana al potere, sia democratica sia repubblicana, rimaneva acriticamente devota al libero scambio.
Come hanno pagato gli Stati Uniti la prima ondata di importazioni a basso costo e a bassa tecnologia? In parte con i proventi delle esportazioni agricole americane e con alcuni irresistibili prodotti di consumo come la Coca-Cola e le sigarette. Sempre più spesso, però, l'America pagava questi prodotti con la vendita di titoli del Tesoro, acquistati con entusiasmo dai Paesi esportatori per far salire il tasso di cambio del dollaro, rendendo le loro esportazioni negli Stati Uniti ancora più competitive.
Questo modello ha avuto però un rovescio della medaglia. Negli Stati Uniti, gli artigiani e i produttori a bassa tecnologia iniziavano a fallire, mentre i nuovi disoccupati venivano incoraggiati ad abbandonare i duri lavori industriali per nuove splendide posizioni nel settore dei servizi. Si diceva loro di dedicarsi all'analisi di marketing e al commercio con l'estero, professioni che potevano far guadagnare in un giorno più soldi di una vita passata a fabbricare attrezzi da giardino. I quali, comunque, ora arrivavano più a buon mercato da Oltreoceano.
Nei discorsi, negli articoli e nelle conferenze, l'élite del Paese ha esultato per la scomparsa della nostra triste economia industriale, prospettando invece un futuro in cui tutti sarebbero potuti diventare consulenti di marketing o finanziari. Peccato che certe persone di mentalità ristretta, fissate sui dati relativi alle retribuzioni orarie pubblicati dal Bureau of Labor Statistics, abbiano notato che gli operai industriali che guadagnavano 30 dollari l'ora lavorando alle catene di montaggio non diventavano in realtà dei commercianti di valuta estera che guadagnavano 3mila dollari l'ora. Al contrario, quando le loro fabbriche chiudevano, colpite dalla concorrenza, era molto più probabile che si presentassero come guardie di sicurezza dei centri commerciali, pagate 10 dollari l'ora.
Nel 1993, io stesso ho pubblicato un libro intitolato The Endangered American Dream («Il sogno americano in pericolo»), in cui ho messo in discussione il dogma che la sostituzione dell'economia industriale con l'economia dei servizi fosse cosa buona e giusta. In realtà, ho scoperto che era cosa buona e giusta solo per la Corea del Sud, per Taiwan, per la fascia bassa dell'economia giapponese e per le regioni europee più povere. Tutti questi Paesi si sono tenuti alla larga dalle importazioni dall'estero (Stati Uniti compresi) mentre esportavano vigorosamente in Usa. In America, dove le industrie a bassa tecnologia stavano crollando, anche il cuore del Paese ha sofferto. Il fentanyl doveva ancora arrivare. Ma in quelle città, i padri non potevano più garantire una vita dignitosa alle loro famiglie, andando a lavorare nella fabbrica in fondo alla strada con i loro cestini del pranzo. Si ritenevano invece fortunati se riuscivano a trovare un lavoro da Walmart con una paga molto più bassa, aiutando a vendere versioni importate più economiche di ciò che essi stessi avevano prodotto un tempo.
Il mio libro conteneva un avvertimento sul fatto che la disgregazione sociale avrebbe aperto la strada a una forma di «fascismo perfezionato» negli Stati Uniti. Ma i recensori non se ne accorsero, mentre stroncavano con disprezzo la mia idiozia protezionistica. Avevo osato mettere in discussione la religione secolare dell'élite al potere: il dogma del libero scambio illimitato che avrebbe reso il mondo intero più ricco. Questo è certamente vero, ma la globalizzazione ha anche reso i lavoratori industriali americani più poveri, troppo poveri per mandare i loro figli all'università, mettendo in pericolo il Sogno Americano.
Il peggio doveva ancora venire. Invece di un protezionismo prudente e limitato - che sostituisse il collasso industriale negli Stati Uniti con una transizione molto più lenta, per dare il tempo di qualificare almeno i figli dei lavoratori dell'industria - Bill Clinton e l'accordo sul libero scambio di Davos hanno aperto gli Stati Uniti a importazioni illimitate dal Nord America. Questa è stata una grande fortuna per l'industria messicana e soprattutto per le aziende straniere di tutto il mondo, che hanno iniziato a produrre in Messico e che poi hanno trasportato i loro prodotti negli Stati Uniti senza alcun limite.
Nessuno nell'élite statunitense si è accorto che ogni altro Paese industriale ha ostacolato le importazioni industriali statunitensi, attraverso ostacoli normativi arbitrari o addirittura vere e proprie cospirazioni. Prendiamo la Corea del Sud: il governo ha finalmente rimosso il divieto di fatto di importare automobili dagli Stati Uniti (i ricchi coreani amavano le Cadillac, assolutamente poco pratiche), solo per garantire che la General Motors non potesse affittare uno showroom in nessuna parte di Seul. I proprietari traditori, tentati di offrire il loro spazio, sono stati minacciati di dure ritorsioni dagli stessi funzionari che avevano firmato sorridenti l'accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. La Corea del Sud, ovviamente, è un Paese che fino ad oggi ha goduto della protezione delle truppe statunitensi.
Poi, l'industrializzazione della Cina ha subito un'accelerazione. Questo ha portato il Paese dalla profonda miseria di Mao - che ho vissuto in prima persona nel 1976, quando l'intera Pechino puzzava come una fogna a cielo aperto - a una prosperità sempre maggiore, costruita in gran parte sulle esportazioni industriali e artigianali verso gli Stati Uniti, il cui mercato era totalmente aperto alla Cina, anche se il mercato cinese era in gran parte chiuso agli esportatori statunitensi. Alcune di queste barriere sono state abbattute, ma il processo non è ancora completo.
Sono state le importazioni cinesi a far fallire la maggior parte delle fabbriche statunitensi, trascinando con sé la nostra base industriale residua. Aumentando la qualità a ritmi costanti e ampliando costantemente la capacità produttiva, gli industriali cinesi sono stati aiutati anche dai continui acquisti di obbligazioni in dollari. Spingendo artificialmente al rialzo il biglietto verde, questo ha reso ancora più convenienti le importazioni cinesi. Perché opporsi alla generosità della Cina nell'offrire utensili da 97 pezzi che possono essere acquistati per pochi dollari da Walmart? Non c'è motivo, se gli americani sono visti solo come consumatori. Ma mentre l'intera élite statunitense celebrava il libero scambio, un numero sorprendente di americani ha perso l'ultimo dei buoni posti di lavoro che sostenevano famiglie, paesi e città.
Il piano tariffario di Trump è semplice: ostacolare il libero scambio in modo che le imprese industriali e artigianali sopravvissute possano tornare a prosperare, mentre altre aziende vecchie e nuove vengono rilanciate con una tecnologia migliore, consentendo loro di diventare esportatori globali pur continuando a pagare buoni salari. È vero, la ricchezza globale è favorita dal libero scambio illimitato. Ma, nel processo, i lavoratori a basso reddito dei Paesi sviluppati si impoveriscono, anche se le persone a più alto reddito diventano ovunque più ricche. Mentre Clinton, i Bush e il signore di Martha's Vineyard Obama sostenevano il libero scambio, insieme all'élite benestante che frequentavano, Trump è intenzionato a premiare i suoi sostenitori a basso reddito. Non sorprende che gli editorialisti del Wall Street Journal e del Financial Times - tutti adoratori del libero scambio - siano indignati.
E poi c'è un'altra cosa. Si scopre che senza un'industria navale civile, la Marina statunitense può solo realizzare prototipi estremamente costosi, non le 200 navi da guerra di cui abbiamo bisogno. Lo stesso vale per altri settori, compreso quello dell'aviazione civile: Boeing è attualmente in ritardo di anni nella consegna di aerocisterne alle forze aeree statunitensi e alleate (gli israeliani devono fare affidamento su aerei di linea riconvertiti vecchi di 65 anni), e anche terribilmente in ritardo nell'evasione degli ordini per le compagnie aeree commerciali di tutto il mondo. Perché? A causa del crollo di centinaia di piccole officine meccaniche che un tempo formavano gli operai specializzati che potevano entrare in qualsiasi fabbrica Boeing per costruire aerei.
Per quanto riguarda l'offerta di lavoro, il taglio dei giganteschi regali federali alle ricche università - che sfornano un numero illimitato di sociologi e sessuologi, che spesso finiscono per lavorare per il governo in qualche modo - ci darà più lavoratori, e forse anche qualche idraulico in più.
Tutto ciò è più che sufficiente per giustificare le temporanee turbolenze globali di oggi, che hanno causato un
temporaneo crollo dei mercati azionari, ma c'è un'altra considerazione da fare. A meno che l'economia industriale statunitense non venga ricostruita con forza, le forze armate americane dovranno importare veicoli e armi. Da dove?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.