Vogliono imporci tutto. Perfino il giorno in cui essere felici

La ricerca: gli italiani tra i più tristi del mondo. L'Onu ha messo in calendario ogni emozione

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E ieri, tu, sei stato felice? Ti svegli e hai dormito poco. È un lunedì che non promette nulla di buono. Cerchi una speranza nel fondo di un caffè, ma non riesci a berlo perché arriva una scarica di telefonate in una manciata di minuti: avvisi, marchette, «non dimenticarti che», «quando ci vediamo», «mi serve un favore», un piccolo problema in banca, sms sparsi di cui qualcuno inutile, un venditore di materassi e in tutto questo non hai ancora bevuto il caffè e già stai facendo tardi al lavoro. Cominciamo bene. Scendi in strada e trovi due multe galeotte crocifisse al tergicristallo. Le metti in tasca senza guardarle.

Pagheremo caro, pagheremo tutto. Come dice Lisa Simpson «l’unica paura che ho è che tendo a sabotarmi quando sono sull’orlo della felicità». Tuo fratello ti avvisa che stanno costruendo una centrale a biomassa di fronte alla casa di famiglia, in una valle, sotto un parco nazionale. Fa male? Dipende da quello che ci buttano dentro. Ok, ci penserai domani. Adesso l’importante è sopravvivere. Sì, perché questa è la Giornata mondiale della felicità e potresti non uscirne vivo. Linus a Charlie Brown: «Pensi che la felicità ti farebbe bene?». Risposta. «Non lo so. Quali sono gli effetti collaterali?». Bisogna chiederlo alle Nazioni Unite. Sanno tutto. Ormai stanno calendarizzando le nostre emozioni. C’è una giornata per ogni starnuto. È tipo il vecchio gioca jouer di Claudio Cecchetto. Salutare. Disegnare. Lentezza. Senza tabacco. Giustizia sociale. Innamorarsi. Darwin Day. Baciare (esiste davvero). Disegnare (idem). Biodiversità.

Presto quella dello spray. Solo che il «World Happiness Report 2017» ti dice che la felicità va cercata a Nord, nella Norvegia di re Olav, nella Danimarca di Amleto, nella Finlandia di Björk, o magari in Svizzera, meglio se con un segreto in banca. In Italia non tanto, visto che è al quarantottesimo posto, incardinata tra l’Uzbekistan e la Russia. E non conta che secondo un altro indice, il «Bloomberg Global Health», siamo i più sani al mondo. Non è vero, a quanto pare, che quando c’è la salute c’è tutto. Ma, appunto, come si misura la felicità? Un tanto al chilo. «Lascio, signora? Prego, lasci pure». È qui il problema. L’idea che ci sia qualcuno che conosca il peso e il colore della tua felicità. Questa cosa non ha nulla a che fare con l’idea libertaria di Thomas Jefferson, quella della dichiarazione di indipendenza americana, per cui ognuno ha il diritto di cercare la propria felicità. La propria, non quella stabilita per legge. Non c’è una misura universale, pubblica, standard, codificata.

La felicità non scende come l’angelo dei burocrati a rallegrare le masse. Non c’è una formula urbi et orbi. Non c’è una funzione matematica. Non c’è una ricetta epicurea e, nonostante le fortune editoriali, non la troverete di certo in Schopenhauer. Gli spacciatori universali di felicità si trovano solo in certi bazar dell’utopia. Quante volte i maestri del romanzo dispotico ci hanno raccontato di stare attenti? Sì, perché le «giornate della felicità» sono la beffa denunciata secoli fa dai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, e poi Aldous Huxley in Il mondo nuovo, da Evgenij Ivanovi Zamjatin in Noi o da George Orwell in 1984. È sempre la stessa storia. Sempre allegri bisogna andar. È la filastrocca del potere che ti compra con una promessa di felicità.

Smile, fai la faccina, metti ti piace, batti le mani e per sentirti protagonista fatti un selfie pure tu. Stiamo sprofondando in un mondo orwelliano senza accorgercene. La giornata della felicità sta finendo e sei sopravvissuto. O quasi, perché il 20 di marzo forse non è ancora passato.

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