Zangrillo: "Il Covid? Ho avuto paura. Ora temo gli effetti sulla nostra società"

Professore, partiamo dall'inizio di questa storia. Il suo primo paziente Covid. "Fine febbraio, non ricordo né il giorno né il paziente. All'inizio nessuno di noi aveva capito."

Zangrillo: "Il Covid? Ho avuto paura. Ora temo gli effetti sulla nostra società"

Professore, partiamo dall'inizio di questa storia. Il suo primo paziente Covid.

«Fine febbraio, non ricordo né il giorno né il paziente. All'inizio nessuno di noi aveva capito. Ricordo benissimo di essermi recato all'ospedale di Lodi. Lì ho compreso che la situazione era grave».

Cosa ha pensato quel giorno, immaginava che avrebbe avuto suo malgrado una parte da protagonista in un film come quello che ha vissuto?

«Prima o poi qualcuno il film lo farà e la premessa sarà: tratto da una storia vera, genere dramma con tanti attori protagonisti, i primi dei quali, cui va il nostro pensiero, i nostri malati, i nostri morti; poi noi tutti, medici, infermieri, specializzandi. Il mio ruolo: organizzare, prevedere, decidere, cercare di sbagliare il meno possibile».

Ha avuto paura, se sì che tipo di paura, intendo se per lei, se per i suoi pazienti, per il mondo intero?

«Sì ho avuto paura e non me ne sono mai vergognato, ho avuto paura per me ma soprattutto per i miei infermieri e i miei collaboratori. I pazienti sono sempre stati al centro della nostra azione, abbiamo capito da subito che chi arrivava in ospedale ci veniva affidato e aveva solo noi come riferimento. Il mondo in qualche modo ci guardava perché prima di noi c'era la Cina con tutti gli interrogativi che ancora oggi non hanno tutte le risposte».

Qualcuno in quelle ore ha usato il termine «lazzaretto» per definire i reparti di terapia intensiva. Si è sentito offeso oppure...

«La terapia intensiva è il luogo dove lo specialista applica le terapie più avanzate con l'obiettivo di regalarti il ritorno alla vita. In terapia intensiva conta il fattore umano, la competenza, il sacrificio, lo studio appassionato e il continuo confronto. La tecnologia conta nulla rispetto al gruppo di lavoro. Prima della competenza serve però la consapevolezza dei nostri limiti».

Ricordo una sera che lei, dopo 17 ore passate a intubare gente, mi chiamò furibondo perché avevamo pubblicato una circolare dell'ordine dei rianimatori che paventava la modalità «medicina di guerra», cioè inserire il concetto di priorità nei pazienti da salvare. Mi disse: siete degli irresponsabili, io salverò tutti i salvabili. Ha mantenuto quell'impegno?

«Ricordo quella furibonda litigata. Quella circolare mi è costata tre mesi di silenzio con un amico al quale per esigenze giornalistiche sto dando del lei. Nel mio ospedale abbiamo strenuamente lottato per ogni singolo paziente cercando di assicurare il massimo in coerenza col quadro clinico complessivo. Chi ha teorizzato la medicina da guerra per stabilire dei limiti alle cure non potrebbe mai lavorare con me».

I virologi a studiare (e andare in tv), i ricercatori a cercare, gli statistici a tracciare curve e voi a salvare vite. Da fuori davate l'idea di una comunità unita. Lo era davvero?

«Questa drammatica epidemia ha prodotto danni enormi, uno è stato quello di aver dato l'immagine di una comunità scientifica disgregata. Però la colpa è anche vostra che, talvolta, date spazio a esperti dell'ovvio che dispensano suggerimenti da bar da troppo tempo. Esistono parametri molto obiettivi per distinguere la reputazione scientifica di ciascuno di noi. Quanto alle curve, chi le ha tracciate, fortunatamente, il più delle volte, le ha sbagliate».

A giorni alterni spuntava una cura o un farmaco risolutivi. C'era del vero o siete andati a tentoni? Lei ha sperimentato?

«Nel mondo reale della medicina ufficiale con reputazione internazionale, la cura specifica non esiste. Abbiamo seguito le regole della sperimentazione clinica ottenendo risultati eccellenti. Ora possiamo dire di avere le idee molto più chiare sulle cure e soprattutto sul metodo per tutelare le persone più esposte e per applicare protocolli di sorveglianza e terapia tempestiva. Il Gruppo San Donato ha prodotto circa 180 ricerche pubblicate dai differenti settori disciplinari, 126 il solo San Raffaele. Questo è il mandato di un Istituto di ricerca e cura. Un mandato che onoriamo ogni giorno».

Quando Conte ha chiuso il Paese lei cosa ha pensato? «Finalmente» oppure «non servirà»?

«L'Italia ha giocato il ruolo scomodo di apripista nella battaglia contro un nemico non conosciuto. All'inizio ho preso atto delle decisioni governative, col tempo le ho apprezzate e devo affermare che le misure di tre mesi fa si sono rivelate corrette».

Lei come è noto è il medico di fiducia di Berlusconi. Può però dirmi in coscienza, per come l'ha vissuta, se e nell'emergenza il governo, o comunque la politica, avrebbe potuto fare di più o meglio?

«Berlusconi ha una dote unica: la visione illuminata e la predisposizione a non ragionare su base ideologica. La sua capacità applicativa è straordinaria, la sua generosità impareggiabile. Abbiamo condiviso, con onestà intellettuale, che sul piano delle disposizioni utili alla tutela in fase di lockdown il governo non poteva comportarsi diversamente».

Secondo lei è esistito o esiste un «caso Lombardia»?

«Quella che la Regione Lombardia ha dovuto affrontare è la più grave ed insidiosa crisi dal 1929. Gli errori possono esserci stati da parte di tutti. La rabbia e l'angoscia di chi ha perduto le persone care è più che comprensibile. Tutto deve essere analizzato scrupolosamente con l'obiettivo di non farsi trovare impreparati in futuro».

E veniamo all'oggi. Pochi giorni fa lei ha detto che «clinicamente il virus non c'è più» ed è venuto giù il mondo. Molti suoi colleghi non hanno gradito.

«Chi ha la fortuna di poter studiare i dati di 6mila pazienti ha il dovere di comunicare in modo esatto e tempestivo. È quello che ho fatto e ora mi trovo in buona e numerosa compagnia».

Delle critiche che le hanno fatto ce ne è qualcuna che l'ha più infastidita. Può fare i nomi?

«Le considerazioni di coloro che pontificano per sentito dire infastidiscono relativamente, soprattutto perché il tempo è galantuomo e alla fine la soddisfazione di aver narrato la verità tempestivamente ci ripaga di tutte le insolenze. Parlo al plurale perché quello che affermo è il frutto del lavoro e delle osservazioni del Gruppo Ospedaliero con la produzione scientifica più qualificata a livello nazionale».

Quindi possiamo abbassare la guardia, nel senso di toglierci le mascherine, divieti vari e tornare a stringerci la mano quando ci incontriamo?

«Dobbiamo incrementare le misure igieniche personali e mantenere le norme prudenziali. Le limitazioni devono essere coerenti con la realtà osservata in ospedale e nei laboratori delle grandi Istituzioni ospedaliere. Il professor Clementi è uno straordinario scienziato, egli ha costruito la sua credibilità in 40 anni, non in 4 mesi di televisione e mi tranquillizza da almeno due mesi».

Eppure la comunità scientifica internazionale continua a tenere alta l'allerta e focolai stanno ripartendo là dove il virus sembrava sparito. La gente sente lei, poi legge loro e non capisce più che cose deve o può fare.

«In realtà la comunità scientifica vera comunica da tempo lo stesso concetto: il virus c'è, il virus si sta adattando e sta soffrendo. Anche laddove ha dei ritorni di fiamma, viene affrontato e debellato. La comunicazione quotidiana dei nuovi positivi è senza senso. Quella relativa ai decessi non è rispettosa della verità. Alla fine, con calma e pazienza tutti ne converranno».

Lei è uno dei pochi clinici che si dice seriamente preoccupato per un altro virus, quello economico. Una apparente contraddizione in termini...

«Resto nel mio settore: l'accesso alle cure è più problematico. Abbiamo trascurato molte patologie croniche ma gravi. In San Raffaele siamo stati velocissimi nella risposta al Covid ma anche nel ripartire. È necessario infondere fiducia: state tranquilli, uscite, occupatevi del vostro futuro».

Pensa che ci possa essere in arrivo un terzo virus, quello della disgregazione sociale?

«Purtroppo lo temo fortemente. È indubbio che il virus abbia favorito anche le diseguaglianze. La persona sola e abbandonata muore. Si avverte fortissima la necessità urgente di un progetto di rinascita economica strutturato, basato sulla solidarietà illuminata: io ti aiuto coinvolgendoti responsabilmente a fare la tua piccola parte».

Un consiglio (probabilmente non richiesto) a chi ci governa.

«Il presidente del Consiglio, a mio parere, ha tenuto saldamente il timone. Spesso mi è sembrato solo. Il mio auspicio è che inizi una stagione in cui i componenti dell'equipaggio vengano scelti su base qualitativa. Altrimenti è naufragio certo».

Questa è banale ma devo fargliela per dovere d'ufficio: il virus uno, il Covid, secondo lei tornerà, e se sì come immagina la situazione?

«Nessuno può rispondere a questa domanda. Diciamo che ci sono tutti i presupposti per essere fiduciosi, il più importante dei quali è: combatteremmo contro un nemico conosciuto, questa volta senza farsi trovare impreparati».

Lei è al vertice di una prestigiosa struttura privata, il San Raffaele di Milano. Pensa che questa vicenda cambierà il futuro della sanità privata ora sotto attacco da più parti?

«Senza la sanità privata per cui lavoro da più di 30 anni non ce l'avremmo fatta. Il nostro ruolo nella clinica e nella ricerca è vitale per il Paese. Il codice etico e deontologico che quotidianamente rispettiamo è l'unico elemento pubblico del testamento del professor Giuseppe Rotelli».

E il futuro della sanità pubblica? Le è d'accordo con chi sostiene che uno dei problemi è stata la mancanza di una adeguata medicina del territorio?

«La sanità pubblica soffre come quella privata: quest'ultima è minata dal pregiudizio. Ciò nonostante abbiamo un servizio sanitario che ci viene invidiato da tutto il mondo. Con finanziamenti adeguati ed un piano pluriennale strutturato saremmo imbattibili».

Ha qualche cosa da rimproverarsi, a titolo personale o di categoria (allargata a tutte le figure tecnico-scientifiche).

«Abbiamo perso un'occasione unica per mettere da parte i personalismi. Vince sempre la squadra. I fenomeni, da soli, fanno solo perdere tempo e opportunità».

Professore, lei oltre che per le sue qualità professionali è noto per non avere un bel carattere. Questa esperienza l'ha peggiorato o migliorato (il carattere)?

«Senti da quale pulpito! Non confondiamo il

carattere, bello o brutto che sia, con l'opportunismo. Sì, non è sempre facile lavorare con me ma in questi 4 mesi il mio fantastico gruppo non mi ha mai lasciato solo e vorrei chiudere con un grazie a ciascuno di loro».

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