C.S. Lewis, il "Tolkien" venuto da Narnia

C.S. Lewis, il "Tolkien" venuto da Narnia
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«C'erano una volta quattro bambini i cui nomi erano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Questa storia narra qualcosa che accadde loro quando furono mandati lontano da Londra durante la guerra a causa dei bombardamenti aerei...». È l'incipit de Le Cronache di Narnia che, nella primavera 1949, Clive Staples Lewis, inizia a leggere all'amico Tolkien.

Un viaggio inaspettato come quello compiuto dagli «Inklings», cenacolo letterario formato da Lewis, Tolkien, Owen Barfield e Charles Williams che si ritrova, una volta a settimana, nel pub del centro di Oxford chiamato Eagle and Child. Desiderosi di leggere libri in lingua originale, saghe anglosassoni, storia medioevale e di sottoporre al pesante vaglio critico le anticipazioni dei loro scritti ma, nel contempo, di fumare la pipa e bere birra... La biografia di Lewis è disseminata di percorsi obliqui e incontri imprevisti (che definiva le «imboscate di Dio»). Un viaggio non privo di contraddizioni che ci viene raccontato da Paolo Gulisano in Clive Staples Lewis. Nella terra delle ombre (Ares).

Lo snodo resta però Tolkien col quale, per una lunga fase, sembra avere poco in comune: «Alla mia venuta in questo mondo mi avevano (tacitamente) avvertito di non fidarmi mai di un papista, e (apertamente) al mio arrivo alla facoltà di inglese di non fidarmi mai di un filologo. Tolkien era l'uno e l'altro». Soprattutto aveva sette anni in più, era sposato, con figli e un convinto cattolico. Lewis era irlandese, non ebbe figli e solo durante la convalescenza dopo una ferita sui campi di battaglia, aveva iniziato a divorare le pagine di uno scrittore come Chesterton. Il grande apologeta del cristianesimo arrivò infatti a definirsi il convertito più riluttante di tutta l'Inghilterra proprio perché era passato dall'ateismo al Cristianesimo per approdare infine all'anglicanesimo.

La sua parabola sembra chiudersi con il saggio L'abolizione dell'uomo.

Disamina agghiacciante sul pericolo del potere assoluto dell'uomo sulla natura, che equivarrebbe al potere sopra altri uomini, e quindi alla propensione ad annullare la propria umanità: «Se una qualsiasi generazione raggiungesse davvero, attraverso l'eugenetica e l'istruzione scientifica, il potere di fare dei propri discendenti ciò che vuole, tutti gli uomini nati dopo dipenderebbero da tale potere. E sarebbero più deboli, non più forti».

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