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Antonio Chiodi Latini fa cucina senza carne né pesce ma non piace ai vegani e ai vegetariani, che nel suo ristorante torinese non trovano le coperte di Linus di chi esclude le proteine animali dalla sua dieta ma poi ne ricerca le sensazioni nella soia, nel tempeh, nel seitan. “Per questo preferisco chiamare la mia cucina underground, parola che dà sì il senso del sottoterra, ma anche del movimento”.
Un ristorante per onnivori che abbiano voglia di entrare nel continuo movimento di un uomo che, a 65 anni, dice di non aver trovato ancora la sua dimensione. “Non so cosa sono oggi ma so che cosa sarò domani”, garantisce. E che in questa dimensione ha trovato una nuova vita dopo decenni passati a fare cucina convenzionale in ristoranti di ogni genere, ma sempre classici, tecnici. Poi la rivoluzione personale. “Nel 2016 ho realizzato il mio ultimo piatto onnivoro”, racconta. E ha iniziato un percorso di conoscenza e di avvicinamento a qualcosa di completamente diverso che non è ancora finito.
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E’ difficile spiegare che cosa sia la cucina di Chiodi Latini. Avanguardista? No. Sperimentale? Certamente sì. La cucina del futuro? Ovvio. Ma siamo lontani dall’essenza. Possiamo dire che cosa certamente non è. Non è una cucina sostenibile non perché non lo sia ma perché la definizione secondo Chiodi Latini è “riduzionistica”. Non è una cucina vegetale perché “è una parola capestro, Schumacher è un vegetale”. Non è una cucina da insalate (“non le faccio”) né di pomodoro (“lo uso solo d’estate e solo per un dolce”). Non è una cucina esteticamente bella (“poi se lo è meglio, ma non mi interessano i piatti piacioni”). Non è una cucina moralistica né punitiva (“chi come me arriva da un’alimentazione maschilista associa la cucina di verdure a una dieta, a una prescrizione medica, a una penitenza”). Ma non è nemmeno una cucina femminile (“all’inizio ho perso tutto il mio pubblico precedente, poi certo a me si sono avvicinate prima le donne ma ora le cose stanno cambiando”).
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E se volessimo uscire dall’esclusione e dire che cos’è, invece? E’ una cucina che cerca realmente la forma e l’essenza dell’ortaggio e per questo utilizza due macchine che fanno mostra di loro all’ingresso del locale, proprio in vetrina, ciò che incoraggia sguardi curiosi (il mio certamente, prima di entrare): uno è un evaporatore rotante, che separa e divide la parte solida e quella liquida di ogni vegetale, una sorta di distillatore e che dà risultati gastronomicamente validi solo con ingredienti di un certo livello, altrimenti meglio lasciar perdere. L’altro è un crioessiccatore che abbatte la temperatura del prodotto fino a -38° creando un effetto biscottato, lievemente gessoso. Strumenti che trasformano il prodotto, ne concentrano l’identità e ne esaltano il sapore e che, dando un senso a ogni parte dell’ingrediente, rappresentano anche una sorta di antidoto al cambiamento climatico nel quale siamo immersi.
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E veniamo alla mia esperienza. La carta è articolata in tre proposte: 5 piatti a 60, 7 piatti a 70, oppure la possibilità di avere 9 portate a scelta dello chef a 90. Io provo un po’ di tutto, ma resto particolarmente colpito da alcuni episodi: come la Pastinaca, un tubero di cui Chiodi Latini utilizza la buccia per ottenere un distillato a cui aggiunge acido citrico e sale ricavando una salamoiala mentre la “polpa” viene arrostita e poi governata per 40 giorni come fosse un salame: al centro lupino, mela cotogna e un olio di zucca spremuto a freddo. Iconico per quanto sia legittimo usare questa parola con ACL il Pinzimonio, una successione di cinque “meringhe” differenti realizzate con l’evaporatore rotante e poi il crioessiccatore (zucchina e basilico, pomodoro giallo datterino con zafferano, peperonata, cipolla di Cannara con vino affumicato e fungo reale e porcino) che vanno intinte in quattro oli differenti provenienti da differenti regioni italiane. Tra una “pucciata” e l’altra si può ricorrere a uno spray con estrazione di erbe spontanea che serve a ripulire la bocca.
Poi un piatto a base di patata rossa francese Vilelotte, la cui buccia astringente e amara esalta il sapore del tubero appoggiato sul ramolaccio, con caramello di bergamotto con il Tamari, una salsa di soia invecchiata, cagliata al limone, germoglio di pisello e viola del pensiero. Concettuale ma anche “street” il topinambur crioessiccato, con il quale fare la scarpetta nella scritta “UNDERGROUND” realizzata con il porro di Cervere. E poi si indossano gli stivaloni per mangiare Come una palude, uno spinacio piccolo crudo con la sua radice affumicata nella quercia marina, servita in una cocotte sopra la quale, sul coperchio, ci sono noci pecan, pinoli e pistacchi che, versati nel piatto, si incaricano della giusta grassezza. Probabilmente il mio piatto preferito.
Dopo altri due piatti a base di un magnifico radicchio tardivo con cipollotto, e di roveja, un pisello selvatico che dona una masticazione davvero interessante, ecco una sorta di predessert, una composta di arancio amaro con zafferano e quello che Chiodi Latini chiama “freddoloso”, una sorta di sorbetto a base di melone bianco e vino affumicato della Masseria La Cattiva e chiusura con un coraggioso cavolfiore con cioccolato amaro con nocciola e biscotti con margarina autoprodotta.
Io ho mangiato nel tavolo accanto al bancone che “confina” con la cucina dove Antonio e i suoi lavorano a vista, I piatti mi sono stati portati quasi tutti dallo stesso chef, ma il personale di sala mi è sembrato assai alacre. La carta dei vini, non sterminata ma assai ben composta, è suddivisa in polveri (Champagne e bollicine), sassi (le etichette minerali), zolle (vini materici) e terre (vini territoriali).
Antonio Chiodi Latini, via Antonio Bertola, 20/B, Torino. Tel. 0110260053, info@antoniochiodilatini.com. Aperto a pranzo dal mercoledì alla domenica e a cena dal martedì alla domenica. Chiuso il lunedì e il martedì a pranzo
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.