Se c’è un locale che ha segnato la storia gastronomica popolare e colta di Roma negli ultimi anni, il corrispondente capitolino di Trippa di Diego Rossi, non per distinguere tra maestri e allievi ma solo mettendo le vicende in ordine cronologico, ebbene quello è SantoPalato. Nome che beatifica l’organo del nostro corpo deputato alle emozioni gustative, e al contempo un omaggio al locale torinese, la Taverna del Santopalato, che negli anni Trenta dello scorso secolo fu covo del movimento futurista, che com’è noto aveva un interesse forte e mai banali verso le vicende del cibo e del suo valore culturale.
SantoPalato venne inaugurato nel 2015 da Sarah Cicolini, una giovane cheffe che veniva dall’Abruzzo, al numero 4 di piazza Tarquinia, in zona Re di Roma, come locale che interpretava una cucina generosa, tradizionale, senza stilizzazioni gourmet, partendo dalla passione di Sarah, e del suo sous chef Mattia Bazzurri, per il quinto quarto, vero cuore (in tutti i sensi) della cucina capitolina. Iniziava così un’epopea che in sette anni abbondanti (pandemia inclusa) ha conquistato mandrie di clienti di ogni genere ed estrazione e anche la critica, che sempre più spesso inserisce il locale tra quelli che vanno visitati a Roma per chi ha voglia di andare oltre, senza però rinunciarvi, alle più corrive tradizioni gastronomiche romane.
Oggi quell’epopea è narrata in un libro appena uscito per Giunti, Santo Palato, firmato dalla stessa Cicolini (192 pagine, 19,90 euro), che in dieci capitoli racconta gli inizi e le evoluzioni della sua vicenda e del suo locale, alternando ricette che vanno dalle abruzzesi Pallotte cacio e ovo e Pizza e fuje elle romane Pajata (al modo di Santopalato), il Garofolato di Roberto Liberati, fino all’ineluttabile Carbonara, che lei introduce specificando che “puoi togliere la Carbonara da Roma, ma non si può togliere Roma dalla Carbonara” e che interpreta, per prendere posizione nelle tante diatribe che accompagnano questa ricetta-totem, con tuorli e albume, solo pecorino, e utilizzando i rigatoni come pasta (per quel che conta, la preferita anche per me, che sono romano).
I capitoli in cui la Cicolini si racconta partono dai suoi primi approcci alla cucina (“Illuminazione”) e con il territorio di origine (“L’Abruzzo, la famiglia”), proseguono con la sua storia d’amore per Roma (“Roma e io”), con un coraggioso racconto del suo disturbo alimentare (“Il cibo, la mia cura”) e della sue decisione di fare della cucina la sua vita rinunciando alla facoltà di Medicina e Chirurgia per entrare nella quale tanto si era battuta (“Chi vince e chi perde?”), con il suo rapporto con la sua squadra e soprattutto con il suo vice Mattia (“La fortuna dell’uomo è l’altro uomo”), con la responsabilità del suo ruolo di cheffe (“La sostenibilità”), con i suoi viaggi gastronomici e le persone in essi incontrate (“When I finally get home”), fino ai capitoli finali dedicati per l’appunto alla Carbonara e alla “Cura per gli altri”.
“La passione di Sarah per la cucina – scrive Francesco Seminara nell’introduzione al libro – è antica e autentica, come racconta lei stessa nel libro, e proprio dalla sopracitata pajata inizia il suo cimentarsi tra fede e tradizione. Sì, perché in una città come Roma tutto è vissuto con estrema enfasi e la cucina è una di quelle cose su cui c’è poco da scherzare. I rigatoni con la pajata rappresentano il primo piatto più viscerale della cucina romana e Sarah si cimenta con questa parte del quinto quarto già dai primi anni in città, quando era ancora una appassionata studentessa di Medicina. Andò a bottega da Roberto Liberati, guru della carne, perché definirlo solo macellaio è riduttivo, e lì imparò prima i segreti della pulizia e successivamente a cucinarlo, con non pochi timori.
“Ogni volta che entrava un romano nel mio locale, tremavo”, scrive Sarah , e questa sensazione se l’è portata dietro a lungo, fino a quando la sua personale rivoluzione della cucina romana non è stata ampiamente accettata”. Sarah e la rivoluzione più saporita che c’è.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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