Bengtsson va al largo e scrive la vera storia degli zingari del mare

Dove sono finite le navi cariche di guerrieri nordici dalle barbe e dalle chiome bionde, dagli occhi azzurri chiari come i ghiacci dei mari artici, e dalle spade assetate di sangue? Questa è l'immagine stereotipata che la storia, attraverso antiche saghe, romanzi e film, ci ha tramandato: quella di un popolo di spietati conquistatori, di pirati a caccia di bottini e avventure, pronti a farsi infilzare dalle picche nemiche pur di lasciare una traccia fra i martiri del nord e di assicurarsi un posto al sole nel freddo Valhalla, l'oltretomba vichingo.

A far pace con la storia non è un saggio accademico, bensì un classico della narrativa d'avventura scandinava. Le navi vichinghe (Superbeat, pagg. 238, euro 13,90), pubblicato nel 1941 e scritto da Frans Gunnar Bengtsson, uno dei maggiori poeti e scrittori svedesi, appare finalmente in Italia nella bella traduzione di Lucia Savona e con l'introduzione di Michael Chabon, il poliedrico autore de Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay . Il libro ha l'incedere classico del romanzo di avventura e la non scontata capacità di far sorridere il lettore, senza peraltro scadere nella banalità. Facendo piazza pulita di luoghi comuni sull'epopea vichinga cui ci hanno abituato i ritratti quasi caricaturali di film come I vichinghi e opere tra loro diversissime come il romanzo Mangiatori di morte di Michael Crichton e il divertentissimo Asterix e i Normanni di Goscinny e Uderzo, Le navi dei vichinghi , ci restituisce un'immagine più umana di questo popolo di guerrieri e instancabili avventurieri.

Il periodo è quello a cavallo tra il primo e il secondo millennio e il protagonista assoluto è Orm, strappato giovanissimo alla sua famiglia e arruolato a forza come rematore su una nave nemica, prima di farsi strada nel mondo a colpi di spada, ma pure attraverso espedienti degni di un cervello fino. Insomma, basta leggere le parole di un saggio guerriero per capire che Bengtsson vuole divertire il lettore, restituendo dignità alla sua antica stirpe: «Nessun soldato si butterebbe nella mischia senza elmo, nemmeno se gli stessero rubando la moglie». La vita di questo straordinario popolo era all'insegna delle razzie, dei rapimenti, dell'incertezza, quasi fossero dei reietti, «zingari del mare». D'altro canto, si tratta di una fase di transizione anche per i figli di Odino e Thor, con la diffusione a macchia d'olio del pensiero cristiano, sincreticamente abbracciato da diversi capi clan, per il momento senza abbandonare le più tranquillizzanti divinità nordiche. Interessantissima è la parte del romanzo in cui la cultura vichinga viene a contatto con quella cattolica di una Spagna in cui stanno avendo il sopravvento le forze di invasione musulmane e in cui, peraltro, ha diritto di cittadinanza anche il culto giudeo.

Tra fiumi di birra, banchetti più o meno sontuosi, risse tra uomini ebbri e donne che si sottomettono volentieri alla forza bruta, il passaggio tra i due millenni si fa intrigante: «Per allora tutti i pagani dovranno essere battezzati...

Ormai sono sempre più i pagani che si convertono a Gesù Cristo, tanto che presto saranno pochi coloro che rimarranno nelle tenebre». Qualcuno ha accostato la prosa di Bengtsson a quella di Alexandre Dumas. Per una volta, il paragone regge la prova-lettura.

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