Da Tula (Russia)
L'unica volta che Alessandro Baricco mi telefonò, diversi anni fa, fu per invitarmi a fare un viaggio a Jasnaja Poljana, vicino alla città di Tula, a sud di Mosca, nella residenza di campagna dove nacque e trascorse gran parte della sua vita Lev Nikolaevic Tolstoj. Non ricordo quali fossero i motivi della sua richiesta, però ne rimasi colpito, tanto che me ne sono ricordato in tutti questi anni. Non provavo - e non provo nemmeno adesso - molto interesse per luoghi come le case degli scrittori. Tra i miei numerosi difetti non c'è il feticismo, e non sono nemmeno un lettore di biografie. Però, se avessi dovuto sceglierne una per visitarla, e una soltanto, tra le case di tutti gli scrittori del mondo passati e presenti, avrei scelto senza dubbio proprio la casa di Jasnaja Poljana. E l'avrei fatto con una certa paura in corpo, non tanto perché (ma si tratta di un parere personale, perciò trascurabile) considero Tolstoj il più grande scrittore mai esistito, ma perché chiunque legga Tolstoj entra in contatto con qualcosa di abnorme, che si rivela nei testi lunghi come in quelli brevi.
Negli anni della mia formazione, dominati dallo strutturalismo, mi abituai a pensare che un testo letterario fosse qualcosa di così diverso dal suo autore da ritenere pressoché superflua l'idea stessa di «autore». Tuttavia continuai a sospettare che ciò non fosse del tutto vero, e che, anzi, la ragione vera per cui amavo la letteratura consistesse nel desiderio di incontrare, nelle pagine di un romanzo o in un libro di poesie, la «vera presenza», come la chiama George Steiner, dell'autore: una presenza così vera, vibratile, viva da non potersi confondere con l'opera stessa.
Se tutto questo era vero, nessun luogo come Jasnaja Poljana me lo poteva confermare, perché Tolstoj è un mostro, e se al mondo esiste un fantasma inquieto, capace di aggirarsi per la sua casa e la sua tenuta tanto da morto quanto da vivo, questo è il «suo» fantasma. Ogni lettore di Tolstoj è innamorato della sua opera ma al tempo stesso ha paura di lui. Tolstoj ci obbliga a compiere passi troppo lunghi, a coprire distanze interminabili (magari dentro una sola pagina), ci rivela l'esistenza di un ordine cosmico che però ha la forza di devastare la vita. Per tutta la vita Tolstoj sperimentò la nevrosi e il caos di chi sa di non poter comprimere in un pensiero coerente quell'ordine misterioso, e perciò balbetta, biascica teorie incomprensibili, bizzarre, puerili, non di rado risibili, si inimica chi dovrebbe essergli amico, sogna riforme impossibili, un socialismo evangelico, vorrebbe piegare la realtà all'utopia. Bambinate. Follie. Dietro le quali si intravede però qualcosa di sterminato.
E ora eccomi qui. La sua casa è più piccola di quanto mi aspettassi, i conti Tolstoj non erano molto ricchi, si viveva vendendo i prodotti della terra. Una deliziosa fanciulla, si direbbe una suorina, ci conduce per le stanze.
Ecco dove i Tolstoj mangiavano, ecco le diverse stanze che questo spirito irrequieto sceglieva come studio: qui scrisse Guerra e pace, lì Anna Karenina, là compose Resurrezione. Ecco il letto dove, vecchio e malato, riceveva il medico. Ecco l'eterno camiciotto da contadino, sua divisa in tante immagini. La casa-museo trasforma Tolstoj in un morto: è la vendetta postuma della moglie, che mille legami unirono al marito, non ultimo l'odio. Ecco la casa-mausoleo, dunque, dove non ci sono fantasmi ma soltanto innocue reliquie.
C'è tuttavia un «ma». La vita è strana, i morti sono indocili, il sangue raggrumato si scioglie, le madonne dipinte lacrimano. E il racconto della suorina, tutto attento alla correttezza agiografica (e mortuaria) si lascia sfuggire indizi inquietanti. Le sue parole suonano come tante piccole bugie, coperture, come se la vedova fosse ancora qui a darle istruzioni, e lei lo sapesse. Lui è qui, da qualche parte. Durante la passeggiata, un paio di chilometri, verso la sua tomba solitaria nel bosco, la guida ci spiega che la Chiesa non volle riconciliarsi con lui. Vestito da penitente, aveva raggiunto a piedi il monastero di Optina Pustin ma non fu ricevuto, perché nonostante 150 km a piedi percorsi pregando, alla fine si era rifiutato di baciare la mano dei monaci e pretendeva di baciarli sulla guancia. Voleva essere perdonato, ma continuando ad avere ragione. Questo groviglio di bisogno e di ribellione, di implorazione e di sdegno, com'è umano! Immagino che Adamo fosse un tipo come lui.
Prima di venire qui, a Tula avevamo visitato il Museo del Samovar. La letteratura russa è piena di samovar. Tutti lo usavano, dall'imperatore fino all'ultimo dei servi della gleba. Serviva per scaldare l'acqua. In Occidente non esiste nulla che sia altrettanto universale, perciò la letteratura non può documentare un gesto - quello di prendere l'acqua da un samovar - così universale, capace di accomunare tutti gli uomini di tutti i ceti. Come il samovar, così la grande letteratura appartiene a tutti. Ci vogliono però gli scrittori capaci di comprendere cosa significa «tutti». Non è un dato statistico, non è una nozione numerica: è quell'enormità, cui l'uomo sa dare solo nomi che non nominano (presenza, mistero, segreto), che abbaglia gli occhi di chi la guarda.
La letteratura infatti parla di tutti e parla a tutti ma non al modo del potere. Non calcola niente, non gestisce 538em;">niente. Ma per capire queste cose è necessario incontrare uno dei mostri che l'hanno fatta, e che continuano a vivere dentro le loro opere senza lasciarsene seppellire da mogli vendicative o da case-museo.
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