Caravaggio? Un fotografo prima della fotografia

Michelangelo Merisi fu il primo capace di cogliere l'attimo, mettendo la realtà in un quadro. Non è un artista seicentesco, ma un nostro contemporaneo

Caravaggio? Un fotografo prima della fotografia

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo l'introduzione del nuovo libro di Vittorio Sgarbi Il punto di vista del cavallo. Caravaggio (Bompiani, pagg. 160, euro 12) in libreria da oggi. Il saggio, ricchissimo di immagini, è una riflessione sulla contemporaneità di un artista universale come Caravaggio.


Perché Caravaggio è così grande? Perché si stenta a credere che le sue idee siano state concepite quattro secoli fa. Tutto, nei suoi dipinti, dalla luce al taglio della composizione, fa pensare a un'arte che riconosciamo, a un calco di sensibilità ed esperienze che non sono quelle del Seicento ma quelle di ogni secolo in cui sia stato presente e centrale l'uomo; la si può chiamare pittura della realtà, e a questo deve la sua incessante attualità. Davanti a un quadro di Caravaggio è come se fossimo aggrediti dalla realtà, è come se la realtà ci venisse incontro e lui la riproducesse in maniera totalmente mimetica. Stabilendo per ciò stesso un formidabile anticipo, perché si può dire, in senso oggettivo, che Caravaggio sia l'inventore della fotografia.

La fotografia è nata nel 1839-40 ma Caravaggio la prefigura già nel 1601, rifiutando di rappresentare la realtà quale dovrebbe essere, come proiezione di sentimenti, di un Bene e di un Male intesi come valori simbolici. Caravaggio osserva e riproduce la realtà esattamente com'è, esattamente come la vediamo in una buona fotografia. Di più: non è fotografia nell'accezione di ritratto posato, è fotografia alla ricerca di una realtà che ci coglie come di sorpresa, dell'«attimo decisivo» cui fa riferimento un grande fotografo come Henri Cartier-Bresson: fotografia come attesa e cattura del momento in cui la realtà si sta determinando.

C'è esattamente questo in Caravaggio. Dalla posizione di un dito, dall'espressione di un volto, abbiamo l'impressione di essere invisibili e di sorprendere una realtà che si sta manifestando davanti a noi. Penso al «Miliziano morente» di Robert Capa, una fotografia fondamentale dell'epoca moderna, malgrado il sospetto che sia ricostruita. È in ogni caso impressionante perché, pur potendo rappresentare il miliziano stramazzato a terra morto o nell'azione del combattimento, lo coglie nel momento della caduta, producendo un effetto che nessun pittore, nessuna posa predeterminata avrebbe potuto creare. Ecco, quel tipo di scelta temporale, quel tipo di visione della realtà è – come vedremo in molti dei suoi dipinti – quello che interessa a Caravaggio: cogliere il momento decisivo. E in questo sta la sua sorprendente modernità: perché niente lo lega al suo tempo e tutto invece lo lega a un tempo psicologico, che è appunto quello di vedere la realtà così com'è e come si determina.

Prima di Caravaggio, la pittura aveva valori di riferimento, intoccabili, organizzati gerarchicamente. L'inventione, il contenuto e il decoro del soggetto avevano un ruolo determinante: la migliore pittura era considerata quella di historia, capace di narrare cose edificanti e di ricorrere alla retorica. Il modello era la letteratura, attività che a differenza dell'arte era considerata al massimo livello intellettuale: più la pittura era in grado di avvalersi di una colta e decorosa inventione, più si dava come retorica e letteratura dipinta, e più poteva considerarsi «nobile». La resa dell'inventione contava decisamente meno, perché neanche il più abile pittore del mondo avrebbe potuto fare grande arte senza ricorrere al genere «nobile».

Caravaggio sconvolge questa gerarchia di valori. Con lui, per la prima volta, il valore dell'arte consiste non più nel rispettare la nobiltà e il decoro del contenuto bensì nella capacità tecnica e intellettuale di riprodurre le cose per quello che sono. La realtà non è più qualcosa da abbellire, da migliorare, da superare poiché volgare nella sua apparenza: diventa piuttosto l'unico punto di riferimento possibile per l'artista, anche sul piano morale. L'artista deve tendere a far vedere le cose come stanno, a mostrarle nella loro verità, senza finzioni. Perciò Caravaggio sceglie provocatoriamente i suoi soggetti, sapendo bene di mettere in crisi non solo i valori tradizionali dell'arte, ma anche quelli della morale e della religione. Dipinge pezzenti come quelli che si potevano trovare nelle strade della Roma del suo tempo e li trasforma in santi; converte prostitute in madonne, ragazzini di facili costumi in personaggi biblici o mitologici, senza alcun abbellimento, con la loro fisicità schietta, chiassosa, maleodorante, in un modo straordinariamente realistico, lavorando dal vero senza disegni preparatori, riproducendo la luce e l'ombra come nessun artista aveva mai fatto prima. E così introduce un nuovo modo di concepire l'arte, finalmente tutto pittorico, emancipato dalla retorica e dalla letteratura: non esiste la «nobiltà» del soggetto, l'importante è il modo in cui lo si rende artisticamente, illudendoci che fra rappresentazione e realtà non esista nessuna differenza sostanziale.

In questo senso l'importanza di Caravaggio non è stata recepita immediatamente. La visione caravaggesca nasce alla fine del Cinquecento e spazza via le visioni ideali di Raffaello e di Michelangelo. La sua formidabile energia attira a Roma (che agli inizi del Seicento era capitale dell'arte come sarà Parigi nel primo Novecento) i pittori da ogni parte d'Europa, spagnoli, tedeschi, francesi, fiamminghi: tutti vogliono vedere la straordinaria invenzione di Caravaggio, la sua capacità di rappresentare la realtà così com'è, non come dovrebbe essere, non come l'avevano idealizzata Raffaello e Michelangelo. Il culto dura fino a circa il 1630-35, una ventina d'anni dopo la morte dell'artista, quando Giovan Pietro Bellori, pittore ma soprattutto biografo di artisti, ripropone l'idea del bello, di una bellezza ideale che è armonia e non ha niente a che fare con la realtà, restituendo a Raffaello il primato di più grande pittore di tutti i tempi. Parallelamente, comincia la sfortuna di Caravaggio, accusato dal Bellori di dipingere figure moralmente discutibili, sulla strada, nelle bettole, nelle taverne, tra le miserie della vita quotidiana. Una sfortuna che dura quasi tre secoli: tra la seconda metà del Seicento e i primi del Novecento, Caravaggio è un pittore minore senza particolari qualità, una figura da ricordare non tanto per l'opera artistica quanto per la vita scellerata, per esser stato più volte in galera e aver commesso un omicidio, per un'avventura umana che determina curiosità, morbosità, racconto.

A partire dai primi del Novecento, tuttavia, alcuni studiosi, e in particolare Roberto Longhi, cominciano a guardare Caravaggio con nuova curiosità, riconoscendogli la vera rivoluzione di aver rappresentato il reale e non l'ideale. La sua è una lenta irruzione nella nostra coscienza, che procede nel corso degli anni venti, trenta, quaranta, fino al fatidico 1951: una lenta conquista della notorietà riservata agli artisti che conosciamo per nome di battesimo (Raffaello, Leonardo, Michelangelo) o, come nel suo caso e in quello del Correggio, per il paese di provenienza (visto che il nome di battesimo del Merisi, Michelangelo, era già occupato).
Di Caravaggio, dopo gli anni della folgorante carriera e l'oblio in cui cade vent'anni dopo la morte, possiamo dire che risorge e diventa davvero Caravaggio nel 1951, quando la sua mostra allestita a Palazzo Reale, a Milano, da Roberto Longhi, attira ben seicentomila visitatori (cifra forse esagerata ma che indica la portata dell'evento), in un momento in cui in Italia un artista di nome Pier Paolo Pasolini lavora, quasi per riprodurre – nella sua stessa vita – quella di Caravaggio.

Pasolini è il grande scrittore, regista, poeta, morto drammaticamente, con la stessa vita doppia che caratterizza Caravaggio. Per entrambi possiamo invocare il principio del Dottor Jekyll e Mister Hyde. Se c'è un autore nel Novecento che ha una somiglianza psicologica con Caravaggio, è proprio Pasolini, che, guarda caso, era stato allievo di Roberto Longhi. È come se l'insegnamento di Longhi lo avesse plasmato per farlo diventare una specie di reincarnazione di Caravaggio. Di sera, il Pasolini-Mister Hyde inforca i Ray-Ban e, al volante della sua spider, va a caccia di ragazzi di strada che di caravaggesco non hanno soltanto i volti (lo stesso Pelosi, il presunto assassino di Pasolini, ha la faccia di un adolescente di Caravaggio). Nei ragazzi di borgata, Pasolini cerca l'autenticità, la vita vera, e anche in questo è caravaggesco; anche in questo Caravaggio era pasoliniano. Così come le debolezze della vita privata non hanno scalfito l'interesse per l'opera del Pasolini-Dottor Jekyll, Caravaggio addirittura si giova, in qualche modo, del moralismo, del giudizio sulla sua vita scellerata per assurgere ad artista maledetto.

Ma quando, nel 1951, diventa il pittore universale che tutti noi da allora riteniamo, lo deve anche a una ragione di natura diversa: dopo la caduta del Fascismo, quegli anni di grande condivisione dei valori della Resistenza trovano in Caravaggio il pittore ideale. I popolani dei suoi dipinti rappresentano la lotta di classe, il quarto stato, il popolo alla conquista della storia.

© 2014 Bompiani/
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