da Madrid
In questi giorni di novembre Madrid è passata dalla luce radiosa del suo limpido cielo ai primi rovesci di pioggia. È successo durante la settimana del congresso internazionale «Il canone del boom» del romanzo latinoamericano che ha riunito, nella capitale e in altre città del Paese, molti scrittori e critici a discutere del grande evento letterario iniziato cinquant'anni fa. Per alcuni a partire dal 1962, data della premiazione del romanzo La città e i cani di Mario Vargas Llosa. L'incontro è stato infatti inaugurato dal Premio Nobel peruviano, protagonista insieme a Gabriel García Márquez, Carlos Fuentes, Julio Cortázar e José Donoso - «i cinque moschettieri» - dello straordinario fenomeno letterario che portò il romanzo ispanoamericano in tutto il mondo; un riconoscimento già anticipato dai libri di Jorge Luis Borges, Alejo Carpentier, Miguel Ángel Asturias, Juan Rulfo, Juan Carlos Onetti, ecc.
Fu lo stesso García Márquez - assente al convegno a causa della sua grave malattia - a spiegare la scelta del termine inglese, che voleva dire «un'esplosione; una parola che non esisteva nella lingua spagnola». Appunto un'esplosione di vendite che alterò il mercato librario internazionale, favorito dall'abile operazione di marketing orchestrata dall'agente letterario Carmen Balcells, «un ciclone in gonnella», che negli anni '70 chiamò i giovani García Márquez, Vargas Llosa e Donoso a Barcellona, da allora punto nevralgico di incontro degli intellettuali sudamericani. Una città che, anche grazie all'editore e poeta Carlos Barral, «assunse, nei sogni di noi latinoamericani che volevamo essere scrittori, la stessa importanza di Parigi: un luogo ideale per vivere, la città spagnola più vicina all'Europa».
Il boom, ricorda Vargas Llosa, «fu la scoperta dell'altro volto dell'America latina sebbene uno dei libri di maggior successo, Cent'anni di solitudine, abbia creato numerosi equivoci. Un romanzo straordinario che, a causa del sopravvento dell'elemento fantastico, creò l'etichetta di realismo magico che marcò tutto il romanzo ispanoamericano, che invece presenta storie e temi diversi». Non fu questo il solo risultato, poiché nacquero e si svilupparono intense relazioni personali tra i vari scrittori. «Fu una battaglia collettiva a favore della letteratura intesa non solo come puro intrattenimento, anche se essa regala tale immenso piacere, ma quale protesta contro ciò che rifiutiamo: la violenza, la corruzione, la volgarità che ci offende. La buona letteratura ricorda che il mondo è brutto e che questa società non può soddisfarci pienamente». Altro elemento che lega i protagonisti del boom è l'esercizio letterario coltivato come professione: «è una generazione di scrittori che vivono dei frutti del proprio lavoro: una conquista che affranca l'autore dalla dipendenza del mercato editoriale».
Lo scrittore si è poi chiesto come mai la sua amicizia con García Márquez sia naufragata in breve tempo, lasciando gravi lacerazioni personali mai rimarginate. «La rottura - chiarisce - è dovuta alla ferita politica che si creò nel 1971 con il caso di Heberto Padilla, il poeta cubano incarcerato e costretto a fare pubblicamente la sua ritrattazione secondo il metodo del modello sovietico, che includeva la delazione di altri amici scrittori che avevano espresso atteggiamenti critici nei confronti del regime». Sappiamo infatti che García Márquez è sempre stato a fianco di Fidel Castro, difendendolo anche pubblicamente da chi accusava la sua dittatura.
I ricordi di Vargas Llosa tracciano anche ritratti spassosi dei compagni dell'avventura letteraria, come quello dell'argentino Julio Cortázar, all'inizio gentile e ritroso, incline a preferire all'impegno politico e ai grandi meeting letterari cose più semplici o stravaganti, come «la partecipazione ad un congresso sulle streghe dove lo accompagnai»; mentre in seguito, attratto dal consenso del grande pubblico, «cominciò a vivere nella strada, si lasciò crescere una barba rossa e diventò, alla soglia dei 60 anni, un giovane rivoluzionario di grande ingenuità e purezza». Vargas Llosa rievoca anche gli incontri avuti con Borges e Neruda, che lo lasciarono senza parole per l'intensa emozione vissuta. Ancora su Cent'anni di solitudine rivela che lo stesso García Márquez fu «il primo a sorprendersi per il successo straordinario del libro». Soprattutto il boom significò la conquista di un nuovo linguaggio che rifiutava la retorica del passato: «La nostra scrittura era quella comune, della strada, che riuniva per la prima volta le due sponde della geografia castigliana, la Spagna e l'America latina, separate dalla fine della guerra civile».
A fine conferenza, lo scrittore ci ha espresso profondo riconoscimento per la grande accoglienza ricevuta in Italia dal romanzo ispano-americano.
Lo stesso apprezzamento che mi espresse, a Milano negli anni '70, García Márquez, affermando che gli italiani, dotati di grande creatività, erano i migliori lettori del suo racconto basato sull'invenzione, la fabula e il surreale. Insomma un boom letterario che negli anni '60 rappresentò il trionfo della fantasia e dell'immaginazione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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